Interpretazioni fenomenologiche della Critica della Ragion Pratica

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EgoTrascendentale
view post Posted on 13/10/2007, 15:10




la critica della ragion pratica nel nome evoca il titolo della critica che l'ha preceduta: critica della ragion pura.
va da sè, il discorso kantiano della prima critica è rivolto alla ragione pura ma teoretica.
come fa notare kant stesso si parla di critica di ragion pratica ma non di critica della ragion pura pratica perchè gli intenti sono diamentralmente opposti: nella prima critica kant intende inchiodare lo sguardo della ragione all'esperienza, designarne i limiti oltre i quali non si ha più scienza e le determinazioni concettuali si fanno confuse col pericoloso esito di approdare nel mare del dogmatismo chiuso.
nella seconda critica invece è ben vero il contrario: se si determina la purezza della ragione indipendentemente dall'aspetto empirico, contingente ed eventuale, allora la critica individua l'aspetto pratico della ragion pura, ovvero: il darsi della ragion pratica presuppone che la ragion pura possa darsi in quanto pratica.
il che significa che la ragione esplica la sua purezza solo nella pratica, solo perchè per mezzo di essa diviene possibile innalzarsi dalla contingenza del volere e del desiderio al più alto orizzonte della libertà.
dico libertà ma non della moralità.
distingueremo in via preliminare il concetto di libertà poichè esso rende possibile il concetto di "volere" e "desiderio", ma anche della morale stessa.

per kant la libertà è un fatto della ragione; la ragione non sa cos'è questa libertà ma sa com'è, eppure poichè essa è un fatto della ragione non è un concetto dell'intelletto.
nel regno dei fenomeni non è possibile rintracciare nulla di libero, vige solo il rigido meccanicismo dei processi naturali dei quali al più possiamo conoscerne le leggi.
ma la libertà non è affatto un problema del regno dei fenomeni.
un pugno che do a mio fratello dal punto di vista della prima critica non può essere considerato come "Immorale", "ingiusto" o quant'altro. va considerato secondo le forme dell'intelletto.
solo in sede morale posso dire che è "Immorale"; ingiusto, sbagliato.

l'orizzonte della libertà è però necessario alla concezione kantiana della morale.
infatti qualsiasi gesto non liberamente voluto non è un gesto morale.
la libertà si identifica con la "ratio essendi" della moralità. infatti senza un libero adeguarsi alla morale, il gesto morale non sarebbe ne più ne meno che meccanico, automatico, e per tanto privo di quel principio che è l'autocoscienza dell'Io in quanto agente morale.
ma se la libertà è "ratio essendi" della moralità questa a sua volta è la "ratio conoscendi" della libertà: la libertà infatti viene conosciuta come la possibile adeguazione a quel sentimento di moralità che sento incontenstabilmente dentro me.
kant è seriamente convinto che la moralità, la voce della coscienza, sia presente dentro gli uomini. nessuno escuso, al di la del tempo e dello spazio.
ciò è "analiticamente" dedotto dal concetto di uomo, fornito da kant nelle lezioni di logica: l'uomo è un essere razionale ma finito.

si distingue così, l'essere razionale e l'essere finito. coniugati e tenuti insieme dal "ma".
questo è decisivo: infatti l'essere razionale e l'essere finito dilaniano l'uomo e danno origine all'oscillare, la canna al vento direbbe Pascal.
con la razionalità infatti l'uomo accede a dio, al bene, all'infinito.
con la finitudine egli si ritrova vittima di passioni e di piaceri.

il desiderio ha come presupposto la libertà che però protende più verso il finito e quindi, ad esempio, se ne frega del divieto di cacciare quaglie e le caccia per cibarsene.
la facoltà del desiderare si muove in virtù di un piacere tipicamente sensibile.
la facoltà del volere invece è strattamente collegata con la libertà e accompagna quest'ultima al conseguimento del fine.
questo rapporto dialettico e oppositivo è il teatro della libertà.

posti questi concetti allora possiamo comprendere il valore della legge morale formulata da Kant. essa è un formale "sollen" (devi) e in questo devi il fatto che si debba presuppone che sia possibile, scrive infatti kant, in tono sillogistico: puoi quindi devi.
è vero dal punto di vista formale sembrerebbe rovesciato il discorso: ma è pur vero che il dovere deve essere possibile pena la distruzione della legge morale puramente intesa come tale. una legge morale che mi chiede di fare qualcosa di impossibile non sarebbe essa stessa morale!!
altro paio di maniche però il fatto che la legge morale mi chieda qualcosa che qualcuno difficilmente farebbe :shifty: .
il valore formale della legge però è di tipo categorico, ovvero non ammette "eccezioni" che rendano morale il non adempimento della morale stessa: l'imperativo categorico non può che essere accettato se si vuol commettere un atto morale.
altrimenti stanno le cose quando la facoltà della libertà e del volere mi pongono dei fini: in questo caso, l'imperativo è ipotetico perchè dipende dal soggetto nel suo modus vivendi empirico. formalmente l'imperativo ipotetico mi parla così: se vuoi ottenere A allora B.

ma nella morale il bene supremo è la morale per la morale stessa e per questo la felicità che pure kant riconosce di dover accordare al soggetto morale non può che essere un telos mai pienamente raggiungibile:
infatti la perfetta adeguazione di libertà è moralità è preclusa all'uomo per principio: l'uomo è un essere razionale ma finito.
la ragione allora si accorge di non poter fare a meno del pregiudizio popolare dell'immortalità dell'anima: solo se l'anima è immortale allora ci può essere una adeguazione tra morale e libertà.
ma del resto è lo stesso dio che deve garantire questo ordinamento delle anime.
ma ancora una volta dio resta un dogma della ragione: dio deve essere il garante del processo di adeguazione di volere e dovere, può essere anche il garante della legge morale, ma dio non deve poter esser dimostrato nè tanto meno deve mostrarmisi!
infatti dio apparendo con la sua maestosità mi schiaccierebbe e io dinnanzi a tale maestosità non potrei che chinarmi dinnanzi a lui, ed in definitiva sarei costretto a seguire la legge morale, senza il mio benchè minimo volere!!

Edited by EgoTrascendentale - 13/10/2007, 16:32
 
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EgoTrascendentale
view post Posted on 13/10/2007, 15:26




Sin qui Kant.
ma le analisi fenomenologiche dovrebbero indicarci come questa morale, sulla cui profondità non si discute, dovrebbe essere radicalizzata.
il presupposto kantiano del concetto di uomo appare coerente con gli esiti della morale: poichè l'uomo è un essere razionale ma finito e pertanto venendo meno il "finito", l'uomo non sarebbe più uomo, allora l'uomo non sarà mai pienamente morale: l'immortalità dell'anma mi permette di sperare una completa adeguazione.
eppure nella rigorosa metodica deduttivistica kant ci inganna infatti è possibile sbarazzarci del concetto di anima!

infatti le ricerche fenomenologiche sulla personalità ci parlano di Io puro che può essere sì immortale ma la sua purezza non per questo è di ordine morale: infatti a differenza di kant l'io puro deve poter decidere liberamente la morale stessa.
questo "decidere" va inteso in senso chiaramente ridotto.
infatti l'io puro deve innanzitutto conoscere la morale in quanto morale, cioè in quanto legge morale e deve averla potuta analizzare e comprendere i nessi teoretici essenziali.
ora se questa libertà di agire è primariamente libertà di interrogare poichè non potrei scegliere nulla senza una preliminare conoscenza della cosa, allora vi è una libertà di scelta che precede ogni morale possibile.
infatti dobbiamo solo quello che sappiamo: il sillogismo kantiano "devi quindi puoi" vanta una nuova conclusione: "devi quindi sai".
diventa così chiaramente problematico il vuoto formale lasciatoci da kant poichè infatti io conosco una forma senza contenuto essa diventa astratta.
ma proprio perciò, d'accordo con kant, la ragion pura è pratica.
il problema è però un altro: quest'astrazione non è forse ancora 1 volta una operazione teoretica?
lo è.
eppure quest'atto teoretico si differenzia da operazioni tetiche di altro tipo poichè io posso attraverso di questa modificare la realtà.
goethe, in un passo famoso, allora diceva: in principio era l'azione.
e del resto se l'atto della libertà presuppone il sapere allora sicuramente solo il sapere trasforma la realtà: il senso di una vita nell'apoditticità allora diviene possibile poichè è la vita del dispiegamento di fini e attuazioni razionali, razionalmente voluti.
certo anche le passioni (i desideri kantiani) possono trovare spazio. e del resto concedersi qualche capriccio, non me ne voglia kant, ogni tanto è davvero morale.
ciò significa che gratificare se stesso rende possibile graticare l'altro.
ma attraverso l'altro io gratifico me stesso.
la legge morale infatti presuppone non solo un mondo intersoggettivamente connesso ma teoreticamente omogeneo.
ma la legge morale esattamente come kant la intese esplica allora i grandi temi dell'esistenzialismo a cavallo le 2 guerre, che qui sintetizzo in modo assolutamente generico, con Sartre: l'inferno sono gli altri.


per non appesantire il post non sono andato in profondità con le analisi e per adesso mi fermo qui.

saluti!



 
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Farvat
view post Posted on 15/10/2007, 12:09




CITAZIONE
l'orizzonte della libertà è però necessario alla concezione kantiana della morale.
infatti qualsiasi gesto non liberamente voluto non è un gesto morale.
la libertà si identifica con la "ratio essendi" della moralità. infatti senza un libero adeguarsi alla morale, il gesto morale non sarebbe ne più ne meno che meccanico, automatico, e per tanto privo di quel principio che è l'autocoscienza dell'Io in quanto agente morale.
ma se la libertà è "ratio essendi" della moralità questa a sua volta è la "ratio conoscendi" della libertà: la libertà infatti viene conosciuta come la possibile adeguazione a quel sentimento di moralità che sento incontenstabilmente dentro me.
kant è seriamente convinto che la moralità, la voce della coscienza, sia presente dentro gli uomini. nessuno escuso, al di la del tempo e dello spazio.
ciò è "analiticamente" dedotto dal concetto di uomo, fornito da kant nelle lezioni di logica: l'uomo è un essere razionale ma finito.

Partirei da qui per un ulteriore approfondimento.

Com'è noto il rigorismo morale kantiano fa poche concessioni all'aspetto sentimentale della morale, che invece in Hume era predominante e una delle poche concessioni è questa coscienza morale interna che è un po come il Daimon di Socrate, spinge ad adeguarsi alla moralità come dovere. E' logico che come giustamente chiarisci la libertà è un prerequisito della moralità, solo dove la scelta è possibile può risiedere l'aspetto morale della vita. Può apparire una banalità dire questo, ma se si tiene conto che due filosofie come quella Stoica e quella di Spinoza che avevano una forte componente etica nella loro concezione deterministica non prevedevano affatto il libero arbitrio, ma prescriveano paradossalmente precetti morali. Ovvio che questo genera una evidente contraddizione, che Kant è costretto a sua volta ad affrontare anche lui.
Lo stesso filosofo di Konigsberg si muove all'interno di un orizzonte di determinismo che lui non può negare, immersa com'è la sua epoca nella fisica Newtoniana che coi suoi successi sancisce sempre di più il trionfo del deismo e del mondo concepito meccanicisticamente, costringe Kant all'unica soluzione possibile, ovvero concordare che se il libero arbitrio esiste esso non è spiegabile, perché esso è parte del mondo nuomenico non di quello fenomenico. Seppure il criticismo sia una forma molto raffinata di Scetticismo, è sopratutto una forma molto ragionata di esso e che presenta aspetti di grande positività. Se Kant ad esempio seguendo Epicuro ammettesse un "clinamen" ciò un aspetto indeterministico nella realtà, che poi è la strada che oggi il pensiero scientifico adotta come giustificazione del libero arbitrio, non sarebbe così profondamente grande quanto lo ricordiamo. Io stesso fino a poco tempo fa sostenevo che gli aspetti indeterministici nel nostro universo ponessero la possibilità della libertà, ma poi mi fu fatto notare che il caso, non è e non può esserne il fondamento. La volontà che va a caso non è volontà, quindi o si ammette che il libero arbitrio è un'illusione oppure si deve concludere con Kant che essa è inspiegabile in termini razionali, ma si badi bene non incomprensibile, noi comprendiamo con la ragione che l'abbiamo, ma non la possiamo scientificamente spiegare dato che essa è per sua natura trascendente. Se vogliamo seguire l'edificazione di un'etica la libertà in qualche forma deve essere ammessa per necessità, ma ciò permesso in Kant perché la sua rivoluzione copernicana permette di fare del soggetto il "legislatore della natura" e quindi andare oltre Newton non tanto negando il realismo della fisica ma ammettendolo come descrizione matematica del mondo dell'estensione che è appunto fenomenico, ma che è solo la rappresentazione che i nostri sensi danno della cosa in Sé. Questa dicotomia è fondamentale perché separa il mondo fenomenico meccanicista da quello nuomenico libero dalle catena delle cause e degli effetti. Ma vi è ancora un requisito più profondo e fondamentale, ogni soggetto deve necessariamente avere la stessa struttura trascendentale per salvare l'oggettività, questo ai tempi di Kant e di Newton era perfettamente ammissibile, ma oggi la cosa è molto più dubbia. Alcuni neokantiani salutarono la Relatività di Albert Einstein come un trionfo del criticismo, perché spazio e tempo divengono all'interno della teoria strutture illusorie, ma altri ad una più precisa lettura compresero anche che quell'impiegato dell'ufficio brevetti di Berna aveva finito per mettere in discussione il cuore stesso del Criticismo, cioè l'oggettività stessa: Il mio spazio-tempo non è più necessariamente uguale a quello di tutti gli altri soggetti. La Critica della ragion pura va riscritta da capo, va rifondata, oppure seguendo quella che diciamo la tendenza della filosofia attuale l'oggettività va essa stessa abbandonata in ragione di uno scetticismo prudenziale, dove non è chiaro il confine tra fatto ed interpretazione. In questo non credo nemmeno ci aiuti molto la fenomenologia Husserliana, nel senso che tale disciplina unifica essere ed apparire, sconfigge il genio maligno Cartesiano, rendendolo ininfluente, ma essa si colloca come propedeutica all'indagine filosofica e scientifica ci dice che i fenomeni esistono, ma non dice molto sul loro significato, ed è sul significato che l'interpretazione regna sovrana. Nella morale l'epochè non è ammissibile, in essa la scelta è necessaria, e per scegliere bisogna interpretare, la differenza tra bene e male la fanno le leggi morali le precomprensioni in senso gadameriano. Non vorrei che si pensasse che intendo criticare la fenomenologia, sto solo cercando di comprendere fino in fondo come poter trattare in senso fenomenologico la critica della ragion pratica. Non è semplice perché la fenomenologia rimuove la cosa in sé, che il punto fondamentale del criticismo, ma altresì essa è uno dei tentativi fatti per salvare la filosofia dallo smarrimento dell'oggettività.


CITAZIONE
infatti le ricerche fenomenologiche sulla personalità ci parlano di Io puro che può essere sì immortale ma la sua purezza non per questo è di ordine morale: infatti a differenza di kant l'io puro deve poter decidere liberamente la morale stessa.
questo "decidere" va inteso in senso chiaramente ridotto.
infatti l'io puro deve innanzitutto conoscere la morale in quanto morale, cioè in quanto legge morale e deve averla potuta analizzare e comprendere i nessi teoretici essenziali.
ora se questa libertà di agire è primariamente libertà di interrogare poichè non potrei scegliere nulla senza una preliminare conoscenza della cosa, allora vi è una libertà di scelta che precede ogni morale possibile.
infatti dobbiamo solo quello che sappiamo: il sillogismo kantiano "devi quindi puoi" vanta una nuova conclusione: "devi quindi sai".
diventa così chiaramente problematico il vuoto formale lasciatoci da kant poichè infatti io conosco una forma senza contenuto essa diventa astratta.
ma proprio perciò, d'accordo con kant, la ragion pura è pratica.
il problema è però un altro: quest'astrazione non è forse ancora 1 volta una operazione teoretica?
lo è.
eppure quest'atto teoretico si differenzia da operazioni tetiche di altro tipo poichè io posso attraverso di questa modificare la realtà.
goethe, in un passo famoso, allora diceva: in principio era l'azione.
e del resto se l'atto della libertà presuppone il sapere allora sicuramente solo il sapere trasforma la realtà: il senso di una vita nell'apoditticità allora diviene possibile poichè è la vita del dispiegamento di fini e attuazioni razionali, razionalmente voluti.
certo anche le passioni (i desideri kantiani) possono trovare spazio. e del resto concedersi qualche capriccio, non me ne voglia kant, ogni tanto è davvero morale.
ciò significa che gratificare se stesso rende possibile graticare l'altro.
ma attraverso l'altro io gratifico me stesso.
la legge morale infatti presuppone non solo un mondo intersoggettivamente connesso ma teoreticamente omogeneo.
ma la legge morale esattamente come kant la intese esplica allora i grandi temi dell'esistenzialismo a cavallo le 2 guerre, che qui sintetizzo in modo assolutamente generico, con Sartre: l'inferno sono gli altri.

La filosofia contemporanea ha segnato la crisi della metafisica, cioè l'abbandono del concetto di Essere, cioè di aspetto permanente in un mondo in costante mutamento. Il criticismo Kantiano è ancora ancorato a quella necessità, la morale è una legge universale in un mondo intersoggettivo isotropo e omogeneo, non è ancora qualcosa che muta anch'esso con il divenire. L'etica del dovere può essere giustificata fino in fondo quando è l'adeguamento a una legge divina, che ognuno sente dentro se stesso, oggi come facevi notare tale concezione fa un po sorridere e pare ingenua.
Ma come si può notare nemmeno l'annunciata morte di Dio ha rappresentato la fine dell'etica, questo perché ci sono rimasti i principi universali come quello di Humanitas e anche perché l'aspetto sentimentale della morale che è così trascurato in Kant può essere recuperato.
L'errore che Kant a mio parere come ho già espresso è che tratta come postulati della ragione l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio, che dalla morale vengono giustificati, come necessari perché l'ideale ed il reale possano coincidere nel regno dei fini, l'etica è un compito infinito e solo nell'infinito può completarsi. Ma sono giustificazioni deboli, che usano la necessità di giustizia come argomento valido per provare velatamente delle mere ipotesi. L'osservazione più ovvia è che dei precetti morali siano stati inseriti nelle società, per mezzo di giustificazioni religiose e da queste siano state avvallate, se trasgredisci e il giudice terreno non se ne accorge comunque quello divino avrà notato il tuo sgarbo, e lui nel suo regno retromondano ti punirà. E' la più vecchia storia del mondo, uno volta si faceva l'ordalia, poi si progredì verso sistemi sociali complessi che necessitivano di sistemi di inibizione e punizione più complessi a loro volta. Ma non credo che la morale oggi possa cominciare dal Dovere, non bisogna istruire le masse a seguire ordini col timore della punizione fisica e psicologica, ma bisogna educare alla reponsabilità, da cui un etica del dovere può solo fondarsi successivamente.

Il discorso è incompleto un po confuso ma avevo poco tempo, spero che ti possa essere utile per ulteriori approfondimenti
 
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EgoTrascendentale
view post Posted on 17/10/2007, 14:48




la contraddizione che poni nella prima parte delle tue considerazioni è senza dubbio corretta ma è anche vero che kant la risolve prontamente ed in maniera brillante.
il dovere che ha in mente kant non è più il dovere contenutistico ma formale, che risente molto della contingenza e attraverso la contingenza si dimostra necessario e vero.
intendo dire che la purezza della legge morale non consiste in un "cosa" ma in un "come".
i 10 comandamenti dicono: non uccidere, non rubare.
mentre kant ti dice: non obbedire al comandamento come un mulo, mettici una "intenzione" dentro.
se fai le elemosina per farti bello e fare in modo che tutti dicano che farvat è generoso, ecco quest'atto lungi dall'essere morale, è, per kant, tornacontismo bello e buono!

l'assolutismo della morale è nel modo di attuare la morale non certo nel contenuto, il che significa che ci possono essere "menzogne vitali", che sono più morali di certe verità.
e così che si innesta l'orizzonte della libertà, che è sì noumenicamente pensabile ma che nel mondo dei fenomeni innesta "cause libere". in Ideen II Husserl parlerà della "Motivazione" come "motore" del mondo spirituale, come un modo di agire che è si una "causa" ma non è una causa efficente (che è la causa tipica della fisica newtoniana) ma (aristotelicamente) è una causa finale, ove il fine è la morale per se stessa. una considerazione questa che esula del tutto fuori dalla natura naturans e natura naturata del dio di spinoza, il quale per altro, non poteva che concepire l'etica "geometricamente dimostrata"!!
come se l'atto morale fosse un semplice teorema di pitagora da dimostrare!

sul criticismo come "scetticismo" avrei molto da dire.
posso dire che solo perchè attraversa la tempesta del dubbio il criticismo è vera filosofia.
infatti kant ha ridiscusso con 1 radicalità inaudita tutti i problemi della filosofia a lui precedente e ci ha insegnato un senso generale della scientifica estraneo a tutta la filosofia precendete.
faccio per inciso notare che la critica della ragion pura ha avuto il merito di aver individuato non solo il problema di una soggettività trascendentalmente organizzata ma di aver rintracciato in essa una forma di attività indipendente dall'esperienza che però si attiva solo con l'esperiena (spazio e tempo):
e del resto, credo che la dottrina dello spazio e del tempo di kant nascondano delle sublimi considerazioni che mettono in discussione la credenza banale (per altro in passato da me sostenuta) secondo cui la rivoluzione di Einstein distrugga la dottrina estetica di kant.
resta infatti certo che l'esperienza è sempre condotta dal soggetto, è sempre ricondotta alla "relatività" del soggetto.
il che significa che indipendentemente da tutto, il tempo sia una forma di sensibilità dal senso "Interno" alla coscienza, e lo spazio dal senso esterno.
e questo indipendentemente dalla velocità a cui siamo lanciati.

ma del resto (faccio una considerazione che desumo io da kant ed Husserl) quando facciamo qualcosa che ci piace il tempo "scorre" più velocemente che quando aspettiamo senza riviste e senza giornali il nostro turno dal dentista!

il tempo non è che corra più velocemente, tanto che sia che io dorma, che rida, che pianga, che mi diverta o soffra come un cane, il mio orologio continuerà a misurare giorni, ore, minuti e secondi indipendentemente da me.
ma il tempo, il tempo quello "vitale" non c'entra niente con il tempo misurato e misurabile.
per questo Husserl fa notare che la considerazione di einstein è una grandissima concezione per la fisica, che ne esce rivoluzionata e rinnovata, ma non per il mondo della vita, in cui spazio e tempo non sono altro che "luoghi" e "break", "il tempo di un caffè", "studio", "riunione" ecc.
in pratica il tempo della fisica è un'astrazione che non ha nulla a che vedere con l'aspetto sensibile ed estetico...
in questo senso io leggo kant, e mi pare di poter rintracciare l'aspetto estetico in modo fedele al disegno della prima critica.


sono d'accordo sul fatto che la critica della ragion pura vada riscritta daccapo.
non sarebbe neppure la prima votla che qualcuno ci tenta!
penso alla dottrina della scienza di Fichte, il sistema dell'idealismo trascendentale di Schelling, la logica di Hegel.
queste opere hanno cercato di ripensare le "condizioni di possibilità" del sapere, attraverso la dura prova del dubbio radicale.
del resto ogni tentativo di riformare la filosofia, ogni tentativo di ripensare daccapo è il nostro modo di riscrivere la critica della ragion pura.
ma bada, riscrivere non significa scrivere.
e se noi possiamo pensare oggi l'idea di una considerazione pura, prima dell'esperienza, è possibile solo perchè stiamo poggiando i piedi su una terra la cui mappa (o una delle mappe) è proprio la critica della ragion pura
 
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EgoTrascendentale
view post Posted on 17/10/2007, 15:15




sulla seconda parte del tuo intervento, devo fare una premessa:
devo ringraziarti per le considerazioni che mi aiutano a sviluppare le problematiche
che non ero riuscito a sviluppare nel mio topic originale.

nella mia tesi di laurea ho dimostrato, credo in modo convincente, che uscire dalla metafisica significa solo andare a ripensare la metafisica in "termini" diversi, senza "determinare" in modo essenziale la struttura di base, l'idea di un essere parmenideo (visto che è quello che citi).
il discorso del dovere invece io credo che sia possibile indipendentemente dal concetto di essere per i motivi che seguono. prima di entrare nel merito faccio notare che il discorso che faccio non appartire nè a kant nè ad Husserl ma è la mia "interpretazione fenomenologica della critica della ragion pratica", ed è ancora incompleta. pertanto se trovi qualche aporia abbi pazienza, è una teoria in-fieri!

partendo da husserl si può ragionevolmente accettare l'idea di un io trascendentale che dentro ognuno di noi può agire in completa autonomia teoretica: io attuo l'epoché fenomenologica, da essere-nel-mondo divento essere-dinnanzi-al-mondo e mi pongo a distanza, creo cioè una frattura.

nei testi di Husserl questo aspetto sembrerebbe indirizzato al discorso teoretico ed escluivamente ad esso. nella crisi invece il discorso si fa di più ampio respiro.
io credo che si possa allora parlare di "epoché morale".

infatti nel circolo di "azione e reazione", il circolo della vita quotidiana, accade sovente che noi facciamo le cose "un pò senza pensarci" (questo non contraddice il mio idealismo, essendo ciò giustificabile attraverso il principio di associazionistico psicologico-trascendentale). ma noi possiamo sempre attuare l'epoché e porci a distanza della cose, possiamo chiederci allora se quel che facciamo senza pensarci vada davvero fatto così, oppure no.
possiamo cioè tagliare i ponti con la contingenza e decidere, scegliere, in un modo assolutamente razionale.
questo fenomeno accade solitamente a posteriori quando noi ci facciamo "l'esame di coscienza", quando respiriamo e contiamo fino a 10 e riconsideriamo tutto.
quando questo liberamente si attua (è difficile ma non impossibile!) mentre litighiamo, mentre abbiamo la reazione bella pronta coi nervi a fior di pelle...
ivi è possibile attuare la cesura, tagliando così i ponti permettendoci di passare dal condizionamento della reazione alla libera azione che noi facciamo in quanto gesto morale, in quanto gesto che riconosciamo (razionalmente) come morale, che vogliamo sia il nostro gesto.
solo attraverso l'epochè noi possiamo mettere tra parentesi tutte le nostre posizioni dossico-teoretiche, le posizione psicologiche e scegliere la via morale dell'azione, solo così il condizionato viene attraversato come tale, riconosciuto come condizionamento e quindi permetterci di fare un passo in avanti verso l'incondizionato che come tale è un ideale regolativo, un'idea la cui infinita concretezza è tale che più ci si avvicina più ci si accorge di quant'è ampio e pertanto lontano.
del resto questa posizione ci permette di liberarci dell'idea di anima e di dio che ancora erano presenti dentro l'ottica kantiana (in modo peraltro coerente coi suoi problemi metafisici - a volte mi domando, detto tra parentesi, se non siamo noi in errore ad aver dimenticato le questioni kantiane in materia morale su dio e l'anima).
infatti l'io trascendentale non fa altro che imporci tutto ciò che è nel suo "sguardo" in senso immanente. dio che ci appare per kant è la distruzione della legge morale (non a torto secondo un certo punto di vista) ma il dio che ci appare è sempre un contenuto di coscienza e siamo noi ad imprimere al dovere, al rispetto di questo dovere, la "trascendenza" verso dio.
a mio giudizio infatti dover rinunciare alle 200mila euro che potrei trovare per strada e tenere per me non assume nessun significato nuovo se c'è di mezzo dio che mi fa da garante e tutore di questo dovere.
anzi al più posso dire a dio: se li restituisco quanto mi dai?
ma questo è un altro discorso.
il titanismo è un discorso morale ma che esulerebbe dal problema della critica della ragion pratica.

in questo senso, riconducendo il dovere alla sfera dell'io penso posso dire che allora è legittimo da parte mia dire: "dobbiamo solo quello che sappiamo".
ma l'ultima aporia a cui sono palesemente ancorato è quella del primato del conoscere sull'agire, del sapere sul pensare.
difficili analisi fenomenologiche potrebbero smembrare quest'aporia attraverso la costituzione di un mondo interosggettivo a cui la morale per natura rimanda e al pensare come attività dato che solo attraverso la contemplazione dell'io trascendentale l'astratto diventa concreto e il noumenico fenomenico.
ma questo è un altro tema....
(per l'esattezza il prossimo! :lol: )
 
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4 replies since 13/10/2007, 15:10   195 views
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