la critica della ragion pratica nel nome evoca il titolo della critica che l'ha preceduta: critica della ragion pura.
va da sè, il discorso kantiano della prima critica è rivolto alla ragione pura ma teoretica.
come fa notare kant stesso si parla di critica di ragion pratica ma non di critica della ragion pura pratica perchè gli intenti sono diamentralmente opposti: nella prima critica kant intende inchiodare lo sguardo della ragione all'esperienza, designarne i limiti oltre i quali non si ha più scienza e le determinazioni concettuali si fanno confuse col pericoloso esito di approdare nel mare del dogmatismo chiuso.
nella seconda critica invece è ben vero il contrario: se si determina la purezza della ragione indipendentemente dall'aspetto empirico, contingente ed eventuale, allora la critica individua l'aspetto pratico della ragion pura, ovvero: il darsi della ragion pratica presuppone che la ragion pura possa darsi in quanto pratica.
il che significa che la ragione esplica la sua purezza solo nella pratica, solo perchè per mezzo di essa diviene possibile innalzarsi dalla contingenza del volere e del desiderio al più alto orizzonte della libertà.
dico libertà ma non della moralità.
distingueremo in via preliminare il concetto di libertà poichè esso rende possibile il concetto di "volere" e "desiderio", ma anche della morale stessa.
per kant la libertà è un fatto della ragione; la ragione non sa cos'è questa libertà ma sa com'è, eppure poichè essa è un fatto della ragione non è un concetto dell'intelletto.
nel regno dei fenomeni non è possibile rintracciare nulla di libero, vige solo il rigido meccanicismo dei processi naturali dei quali al più possiamo conoscerne le leggi.
ma la libertà non è affatto un problema del regno dei fenomeni.
un pugno che do a mio fratello dal punto di vista della prima critica non può essere considerato come "Immorale", "ingiusto" o quant'altro. va considerato secondo le forme dell'intelletto.
solo in sede morale posso dire che è "Immorale"; ingiusto, sbagliato.
l'orizzonte della libertà è però necessario alla concezione kantiana della morale.
infatti qualsiasi gesto non liberamente voluto non è un gesto morale.
la libertà si identifica con la "ratio essendi" della moralità. infatti senza un libero adeguarsi alla morale, il gesto morale non sarebbe ne più ne meno che meccanico, automatico, e per tanto privo di quel principio che è l'autocoscienza dell'Io in quanto agente morale.
ma se la libertà è "ratio essendi" della moralità questa a sua volta è la "ratio conoscendi" della libertà: la libertà infatti viene conosciuta come la possibile adeguazione a quel sentimento di moralità che sento incontenstabilmente dentro me.
kant è seriamente convinto che la moralità, la voce della coscienza, sia presente dentro gli uomini. nessuno escuso, al di la del tempo e dello spazio.
ciò è "analiticamente" dedotto dal concetto di uomo, fornito da kant nelle lezioni di logica: l'uomo è un essere razionale ma finito.
si distingue così, l'essere razionale e l'essere finito. coniugati e tenuti insieme dal "ma".
questo è decisivo: infatti l'essere razionale e l'essere finito dilaniano l'uomo e danno origine all'oscillare, la canna al vento direbbe Pascal.
con la razionalità infatti l'uomo accede a dio, al bene, all'infinito.
con la finitudine egli si ritrova vittima di passioni e di piaceri.
il desiderio ha come presupposto la libertà che però protende più verso il finito e quindi, ad esempio, se ne frega del divieto di cacciare quaglie e le caccia per cibarsene.
la facoltà del desiderare si muove in virtù di un piacere tipicamente sensibile.
la facoltà del volere invece è strattamente collegata con la libertà e accompagna quest'ultima al conseguimento del fine.
questo rapporto dialettico e oppositivo è il teatro della libertà.
posti questi concetti allora possiamo comprendere il valore della legge morale formulata da Kant. essa è un formale "sollen" (devi) e in questo devi il fatto che si debba presuppone che sia possibile, scrive infatti kant, in tono sillogistico: puoi quindi devi.
è vero dal punto di vista formale sembrerebbe rovesciato il discorso: ma è pur vero che il dovere deve essere possibile pena la distruzione della legge morale puramente intesa come tale. una legge morale che mi chiede di fare qualcosa di impossibile non sarebbe essa stessa morale!!
altro paio di maniche però il fatto che la legge morale mi chieda qualcosa che qualcuno difficilmente farebbe
.
il valore formale della legge però è di tipo categorico, ovvero non ammette "eccezioni" che rendano morale il non adempimento della morale stessa: l'imperativo categorico non può che essere accettato se si vuol commettere un atto morale.
altrimenti stanno le cose quando la facoltà della libertà e del volere mi pongono dei fini: in questo caso, l'imperativo è ipotetico perchè dipende dal soggetto nel suo modus vivendi empirico. formalmente l'imperativo ipotetico mi parla così: se vuoi ottenere A allora B.
ma nella morale il bene supremo è la morale per la morale stessa e per questo la felicità che pure kant riconosce di dover accordare al soggetto morale non può che essere un telos mai pienamente raggiungibile:
infatti la perfetta adeguazione di libertà è moralità è preclusa all'uomo per principio: l'uomo è un essere razionale ma finito.
la ragione allora si accorge di non poter fare a meno del pregiudizio popolare dell'immortalità dell'anima: solo se l'anima è immortale allora ci può essere una adeguazione tra morale e libertà.
ma del resto è lo stesso dio che deve garantire questo ordinamento delle anime.
ma ancora una volta dio resta un dogma della ragione: dio deve essere il garante del processo di adeguazione di volere e dovere, può essere anche il garante della legge morale, ma dio non deve poter esser dimostrato nè tanto meno deve mostrarmisi!
infatti dio apparendo con la sua maestosità mi schiaccierebbe e io dinnanzi a tale maestosità non potrei che chinarmi dinnanzi a lui, ed in definitiva sarei costretto a seguire la legge morale, senza il mio benchè minimo volere!!
Edited by EgoTrascendentale - 13/10/2007, 16:32