Considerazioni su "L'eterno Ritorno dell'Eguale"

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EgoTrascendentale
view post Posted on 17/6/2009, 20:34




CITAZIONE (Farvat @ 15/6/2009, 22:33)
Vi è un interprete, un interpretato ed un interpretare posso anche dirmi d'accordo con lei, ma da quando mi è balenata questa idea dell'eterno ritorno mi pare che tutto ruoti in un circolo conturbante, e tutto ruota tanto veloce nel processo dell'interpretazione, che non riesco più a distinguere la differenza tra il soggetto e l'oggetto di questa correlazione.

Inizio da qui che mi pare ci siano tutti i nodi fondamentali per discutere la questione.
Quando si dice che vi è un interprete, un interpretato e un interpretare noi non stiamo ammettendo qualcosa che si giustapone come "inizio". queste considerazioni sono una sintesi e non una tesi.(e mi dirai tu: e qui siamo già in-circolo. lo so ;)).
Nel dire: interpretare noi non diciamo altro che, in termini più generali, anzi generalissimi, "relazione".
Come sai, ho più volte insistito nel considerare questa relazione scritta "relazione" (quindi ridotta) come l'unica traduzione corretta del termine più oscuro ed enigmatico che gli antichi greci ci abbiano lasciato in eredità: Logos.
Infatti l'interpretazione è un modo di darsi del Logos.
ma nel modo di darsi del Logos si distingue: il Logos come tale e il modo di darsi del Logos, il suo apparire.
Noi possiamo anche fare come peppeMP che mi tuona che "Anzitutto, che appaia la nullificazione delle cose è impossibile".
E' davvero molto strano però che si possa parlare della nullificazione ed affermare, in tutta serietà, com'egli senza dubbio fa, che tale nullificazione non appaia.
Sia essa un'idea che mi ritrovo come vorrebbero i platonici perchè l'ho in testa (per grazia/colpa di Dio o della biga alata fa poca differenza) o che essa derivi dai "regolamenti" che la sensibilità mi offre come vogliono i grandi pensatori inglesi del '600 non fa differenza: se una parola significa qualcosa, e significa in quanto "è scritta" (o riferita oralmente ma comunque "tras-messa"), allora significa qualcosa che si vuole esporre ed indicare. e se significa qualcosa, a qualcosa fa riferimento e il riferimento è preso a paradigma di ciò che si vuol-dire.
E quindi, a botta, ricadiamo nell'orizzonte omnicomprensivo dell'apparire che comporta sempre un modo d'apparire.
Anche l'eterno ritorno, indipendentemente da come sia stato partorito, ci appare.
in effetti tutto deve tornare, purchè si abbia il coraggio di guardare oltre l'ovvietà del "deve tornare".
tutto deve tornare non vuole dire che taglio la barba e questa ricresca.
in effetti sarebbe bello: ho 500 euro oggi, li spendo ma tornano in tasca! :woot:
Sarei il più felice al mondo.
Ma questo mi direte voi: "ma ego, che assurdità vai pensando?"
ed allora bisogna pur ammettere un orizzonte di ciclicità entro cui si può parlare di "inizio", di "fine", di svolgimento" e di "ritorno".
e da qui, considerare le modalità di darsi di codesto ritorno: secondo eternità.
questo secondo eternità chi se la sente di accostarlo al filosofo più dimenticato qui dentro? (leggasi: spinoza e il suo "sub specie aeternitatis) Ma l'eterno ritorno ci beffa con la sua beffarda formulazione: tutto deve ritornare.
e tutto deve ritornare al modo dell'eternità.
Praticamente un trappola.
tutto è regolato da un rigoroso determinismo che in confronto quello di kant è una sciocchezza da birreria.
No no, aspetta che kant credeva nella reincarnazione (affinchè l'anima, postulata immortale dalla ragione, potesse adeguarsi al dovere perfettamente, ovvero identità di volere e dovere)...
Ma kant non poteva dimostrare questo, perchè l'eternità a suo giudizio trascende i limiti dell'esperienza.
E Nietzsche non ha mai criticato kant per le sue geniali intuizioni contenute nella prima critica.
Ma solo quelle della seconda.
Ciò non deve farci star troppo male. Nella gaia scienza, se non sbaglio, ebbe a dire: un giorno un medico verrà e dimostrerà che ho ragione.
Arrivò quel giorno, arrivò quel medico. Si chiamava S. Freud.
O Nietzsche era pazzo o aveva capito tutto.
io opto per la seconda.
E aver capito tutto vuol dire: aver intravisto nell'essere umano il grande principio della libertà e dell'autodeterminazione soggiogato dalle abitudini, dalle credenze e dalla monotona ripetizione.
Una vita senza ricerche, anche per Nietzsche come per Socrate, non è degna d'esser vissuta.
ciò non deve essere scandoloso: "in fondo già il mio maestro Schophenauer ammetteva di non saper più distinguere il mondo di sogno da quello della veglia" (così parlò il Nietzche di Far).
Possiamo allora individuare un nuovo senso della soggettività trascendentale. Non più un rapporto oppositivo come voleva cartesio ma un essere-al-mondo come voleva Merleau-Ponty, sulla scia di Husserl (che è stato il primo a teorizzare la lebenswelt - il mondo della vita - come l'orizzonte di senso entro cui tutti gli orizzonti generali si inscrivono. e qui io mi/vi domando: possiamo dire che il mondo della vita è "transgenerico" - che guarda caso è l'unica predicazione che Aristotele ci assicurava dell'Essere?)
E noi, alla faccia di ogni amor fati, possiamo "sempre di nuovo" guardare questo eterno ritornare nella sua infinita ricchezza, foriera di dettagli microscopici che aggiornano il senso sin qui compreso e nella certezza dell'orizzonte della vita rinviano ad un futuro che è già qui, eppure non ancora.
 
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GiuseppeMP
view post Posted on 18/6/2009, 19:49




Ego ha scritto :

Noi possiamo anche fare come peppeMP che mi tuona che "Anzitutto, che appaia la nullificazione delle cose è impossibile".
E' davvero molto strano però che si possa parlare della nullificazione ed affermare, in tutta serietà, com'egli senza dubbio fa, che tale nullificazione non appaia.

Beh, Ego, che la nullificazione non appaia significa che "appare come negata". Non è che non appaia assolutamente, ma appare come qualcosa che, se non fosse negato dalla verità, renderebbe contraddittorio l'incontraddittorio.
Che qualcosa sia nulla non può mostrarsi : ciò che si mostra è che qualcosa è uguale a sé, e che non esce da sé per diventare altro, altrimenti sarebbe altro. Ciò che appare è la negazione della convinzione (contraddicentesi) che gli essenti possano annullarsi, o trasformarsi in altro.
Non appare che qualcosa finisce nel nulla, ma appare qualcosa di inoscurabile (l'orizzonte della coscienza) che accoglie il venire dal non apparire da parte di certi enti, e che ne vede l'assentarsi. Tutte le cose sono eternamente sé stesse, altrimenti esisterebbe un tempo in cui qualcosa non è sé. Ma che qualcosa non sia sé è l'impossibile, e allora è altrettanto impossibile una situazione (un luogo, un tempo) in cui un ente non è sé : tutto è immutabile, e l'immutabile di-viene, nel senso che viene-dal non apparire.
 
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Farvat
view post Posted on 19/6/2009, 09:21




CITAZIONE
Non appare che qualcosa finisce nel nulla, ma appare qualcosa di inoscurabile (l'orizzonte della coscienza) che accoglie il venire dal non apparire da parte di certi enti, e che ne vede l'assentarsi. Tutte le cose sono eternamente sé stesse, altrimenti esisterebbe un tempo in cui qualcosa non è sé. Ma che qualcosa non sia sé è l'impossibile, e allora è altrettanto impossibile una situazione (un luogo, un tempo) in cui un ente non è sé : tutto è immutabile, e l'immutabile di-viene, nel senso che viene-dal non apparire.

Permettimi Giuseppe una serie di osservazioni:
Questo tipo di metafisica convince poco, basata tutta sull'identità degli enti, è un'ontologia che già Hegel aveva sorpassato, non vedo perché ritornare a tali arcaismi. Un ente non è un'identità in sè, ma essa si costituisce solo in relazione di differenza con tutti gli altri enti, solo nel Tutto si decide il vero. Noi non conosciamo per identità, ma per differenza; L'ente in quanto tale non esiste, è solo una costruzione linguistica, un artificio, un'ideazione della filosofia occidentale di cui siamo rimasti prigionieri. Io non sono un'ente, sono il nodo di una rete di relazioni a cui sono interconnesso e che decide di volta in volta di me. Dieci anni fa ero io certo, ma ero proprio lo stesso soggetto attuale? E tra un'ora sarò sempre lo stesso soggetto di questo "adesso"? Ha ragione Slavoj Zizek che il soggetto è come una cipolla, tolti gli strati esterni ci si trova in mano il vuoto.
Se si vuole costruire un'ontologia bisogna abbandonare le cose, gli enti e costruire un'ontologia di stati dell'intero sistema.
 
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alice_w
view post Posted on 19/6/2009, 11:03




Dalla Gaia Scienza, in cui trovo la prima espressione compiuta dell’Eterno Ritorno dell’Identico, non emerge da subito cos’è la dottrina dell’eterno ritorno in Nietzsche, ciò che emerge, o appare se è più consono alla tradizione, è il ruolo dell’eterno ritorno. In primis Nietzsche mette in luce il cosa può l’eterno ritorno ed è proprio e solo nel cosa può che individuo carattere innovativo del pensiero dei pensieri.
Ma per poter affermare ciò ho assolutamente bisogno, non di oltrepassare (per andar dove, mica c’è un altro posto nella filosofia nietzschiana?!) la dualità essere/apparire, ma di pormi nella prospettiva in cui non ha più senso parlare di essere e apparire e fare un ulteriore passo, che faccio, quello di radicalizzare il venir meno di essere/apparire estendendolo anche alla tradizionale dicotomia contenuto/forma. Non mi interessa suffragare logicamente queste affermazioni che scrivo. Io sto ora proponendo di focalizzare la cosa (le cose in Nietzsche esistono, sono i fatti a non esistere) Eterno Ritorno dell’ Identico in Nietzsche e, innanzitutto, nella sua prima formulazione compiuta trovo l’eterno ritorno dell’identico in questo:
341 Il peso più grande.
Che fa Nietzsche in questo e con questo aforisma dal curioso titolo? Curioso perché uno prima di leggere l’intero aforisma si chiede quale sia questo peso più grande, o per lo meno io l’ho fatto.
Già che ci sono ne istituisco qui il ritorno che è sempre bello da riascoltare, nella sua inaudità semplicità:
CITAZIONE
341. Il peso più grande - Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun'altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?"

Siamo nel piano dell’ipoteticità. L’eterno ritorno è presentato come un’ipotesi, una “simulazione”, una condizione in cui ci si può trovare. Questo carattere ipotetico è di primaria importanza per rintracciare la valenza dell’eterno ritorno.
La dimensione che apre l’aforisma in oggetto è quella della possibilità, una possibilità che inerisce l’ orizzonte della vita dell’uomo e su di e per esso è l’impatto delle conseguenze che la prospettiva aperta da tale possibilità determina. Dimensione del possibile che infatti, oltre al condizionale iniziale, si mantiene per tutto lo svolgimento della trattazione che è un susseguirsi di interrogazioni, domande insomma, che ti vengono proposte assumendo come ipotesi che tutto debba ritornare innumerevoli volte.
Ma qual è il peso più grande? Il pensiero che tutto debba ritornare? O altro? Questo mi sono chiesta.
Risposta:
«Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande!”
Il peso più grande allora non è tanto la “dottrina” dell’eterno ritorno dell’identico, ma quella domanda che sorge e solo attraverso la prospettiva aperta dal pensare l’e.r. (che è un pensarci nell’e.r.) assume una piena radicalità.
E io qui, molto banalmente se vogliamo, mi sono chiesta una cosa: mi sembra che Nietzsche stia cercando Morto Dio e prima ancora della creazione di nuovi valori qualcosa per poterlo fare, ma cosa?
Una regola per l’agire umano, una regola per l’azione. La condizione che permette una nuova regola all’agire umano è data dall’ipotesi che l’esistenza umana sia intesa alla luce della dell’e.r.. E.r. che allora assume una valenza specifica all’interno del pensiero nietzschiano, valenza che rappresenta il carattere innovativo della portata di una concezione non nuova in sé poiché già presente nel mondo presocratico, già dei greci. Carattere innovativo che individuo nell'uso dell'e.r. come quella condizione, (una sorta di forma mentis) che permette una nuova regola all’agire umano non soggetta al ricorso a un principio di autorità né esterno (trascendente l’uomo, nella fattispecie Dio), né interno l’uomo (sto pensando all’imperativo categorico kantiano). La nuova regola all’azione umana inerisce in Nietzsche la soddisfazione o meno di una volontà, o ancora meglio, non può sottrarsi alla domanda “Lo voglio?”, per essere fedeli al testo.
La domanda apre forse la possibilità all’(auto)salvezza dell’uomo,in caso di risposta affermativa, su questa terra, in questo mondo?
E l’ Eterno Ritorno dell’Identico è allora, in questo senso,il poter-essere la condizione necessaria per decidere del destino dell’uomo, un espediente per fare questo mondo un po' grazioso e simpatico, caratteristiche di quello che abbiamo perso uccidendo Dio.
Il peso più grande allora è il pensiero dell'eterno ritorno o riuscire a dare una nuova regola all'agire umano, per Nietzsche?
O riuscire a rispondere (affermativamente)a una semplice domanda "Lo voglio questo?" ?
Be' questa è una mia prima considerazione o riflessione, che non è ancora salda.

Una seconda mi è concessa dalla posizione che occupa il 341 all'interno dell' architettura della Gaia Scienza. E anche qui molto banalmente, per una lettura sequenziale del testo è posto tra il suo precedente 340 e il successivo 342. Però li mostro comprensivi di titolo (faccio presente giusto a titolo di cronaca che individuo in questa sequenza, in questa precisa successione, in tre tempi la sintesi della filosofia di Nietzsche):

340. Socrate morente - 341. Il peso più grande - 342. Incipit Tragoedia
(Naturalmente nulla mi vieta di pensare che gli aforismi siano buttati lì a caos, ma nulla mi vieta di poter rintracciare in questa sequenza un preciso ordine logico)
Il peso più grande è inserito tra il racconto di una morte e il racconto di un inizio. Un Socrate in punto di morte nelle parole di Platone, simbolo della tradizione filosofica occidentale - aforisma che si concude con "Noi dobbiamo superare anche i Greci!" - e l’avvento, la prima presentazione in Nietzsche di Zaratustra che, dopo aver goduto della sua solitudine si trova con il cuore mutato, una mattina si alza all’aurora e decide di scendere dalla montagna.
Il quarto libro della Gaia Scienza si conclude con l'inizio del tramonto di Zarathustra.
In mezzo a queste due cose (Socrate che muore e l'avvento di Zara), che con un lieve tocco di interpretazione potrei forse concedermi di chiamare eventi, mi si frappone qualcosa. E, a prescindere da cosa mi si frappone, il frapporsi stesso mi indica che la morte non coincide necessariamente con la fine punto e basta, ma può rappresentare un inizio se ci metto in mezzo qualcosa. Mi indica anche che questo eventuale passaggio da una fine a un inizio non lo fa immediato Nietzsche, come se fosse necessario un punto di passaggio (una "metamorfosi"?).
Della prospettiva escatologica nietzschiana parlerò però in modo approfondito, nel prossimo intervento.

Edited by alice_w - 19/6/2009, 14:31
 
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DrManhattan
view post Posted on 19/6/2009, 12:57




CITAZIONE (Farvat @ 19/6/2009, 10:21)
Dieci anni fa ero io certo, ma ero proprio lo stesso soggetto attuale? E tra un'ora sarò sempre lo stesso soggetto di questo "adesso"?

In effetti no.

Nell'arco di ogni sette anni circa, il nostro intero organismo (ossa comprese) si "riproduce".
Giorno dopo giorno ogni nostra singola cellula muore, sostituita da una sua "copia".
Come se fosse portata naturalmente a creare una fotocopia di una fotocopia di una fotocopia, ad libitum.
E' il principio dell'invecchiamento.

Quindi (comunque la si voglia intendere), anche se paradossalmente ci riconosciamo quando ci osserviamo allo specchio la mattina (e quando qualcuno ci chiama per nome gli rispondiamo), siamo in fondo ogni volta leggermente "altro" dal giorno prima.

Se "quest'altro" sia un'identità o un ente non lo so, ma per quanto mi riguarda mi è sempre apparso (e continua a farlo) come un ossimoro.

Così come la questione dell'eterno ritorno.
Senza aut, aut quae, nec o necnon.
Se, come disse Hegel, "il vero è l'intero" potrebbe essere come una ruota che gira talmente veloce, che ai nostri occhi è ferma.
^_^
 
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GiuseppeMP
view post Posted on 20/6/2009, 01:21




Farvat, il tuo modo di intendere il significato dell' "ente" è contraddittorio, perché prima dici che questo che si mostra non è ente, e poi dici che noi siamo dei nodi di una rete di relazioni...Ma, Farvat, "ente" significa "definizione-che-è", e anche "nodo di una rete di relazioni" è una certa definzione che esiste, un certo ente.
L'ente non può essere negato, perché ciò che si vorrebbe porre al posto dell'ente sarebbe, di necessità, un ente (cioé avrebbe il significato dell' "ente").
Che poi il tuo io di ieri (c1) non sia quello di oggi (c2), questo lo puoi dire solo in quanto c'è qualcosa che, nella variazione che porta da c1 a c2, appare qualcosa di identico (c). L'identità, nella manifestazione incompleta dell'essere, è identità diversificantesi, e le differenze che appaiono sono sempre differenze di un'identità; e tutto questo è ente.
Poi, bisogna dire, che l'ente che si mostrava ieri esiste ancora perché la negazione della sua esistenza implica l'affermazione che l'ente è ni-ente. Quello che hai fatto ieri mattina è eterno, perché è sé stesso e non può disfarsi di quello che è. Ed è sé stesso proprio "come qualcosa che accade sull'orizzonte", e proprio per questo non può mostrarsi "sempre" nell'apparire incompleto (finito) dell'essere : è eterno, cioé, nel suo accadere nell'apparire che, non mostrando tutte le determinazioni dell'essere, è finito.
 
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alice_w
view post Posted on 20/6/2009, 08:31




CITAZIONE
Che poi il tuo io di ieri (c1) non sia quello di oggi (c2), questo lo puoi dire solo in quanto c'è qualcosa che, nella variazione che porta da c1 a c2

Scusami GiuseppeMP, ma in base a quello che scrivi è corretto dire che, chiamando la variazione da c1 a c2 tempo, il tempo è "qualcosa" di inessenziale?
 
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Farvat
view post Posted on 20/6/2009, 10:51




CITAZIONE
Farvat, il tuo modo di intendere il significato dell' "ente" è contraddittorio, perché prima dici che questo che si mostra non è ente, e poi dici che noi siamo dei nodi di una rete di relazioni...Ma, Farvat, "ente" significa "definizione-che-è", e anche "nodo di una rete di relazioni" è una certa definizione che esiste, un certo ente.

Non vorrei portare il discorso troppo fuori dal tema del post e forse sarebbe meglio trattare l'argomento a parte. Ma io non ho negato l'ente, ho proposto una fondazione differente del suo significato. L'ente, non significa "definizione-che-è", ma "definizione-che-non-è-tutte-le-altre" e solo in questo senso diventa una determinazione che è. Non è nulla di nuovo, ma la fondazione già proposta da Platone come "differenza" relativa. L'identità in sè viene abolita, così come qualsiasi "sostanza". Il significato è vuoto come identità, tale identità è data solo in relazione di differenza agli altri significati, Il significato di "nodo di una rete di relazioni" non significa nulla se non è in relazione di differenza con tutte le altre definizioni. Questo il punto: è il non essere come relazione che fonda l'ente nella sua identità. Qualsiasi ente è pur sempre un certo ente, ma è un certo ente perché la sua identità è fondata a priori sulla differenza.
 
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Farvat
view post Posted on 20/6/2009, 13:28




CITAZIONE
Possiamo allora individuare un nuovo senso della soggettività trascendentale. Non più un rapporto oppositivo come voleva cartesio ma un essere-al-mondo come voleva Merleau-Ponty, sulla scia di Husserl (che è stato il primo a teorizzare la lebenswelt - il mondo della vita - come l'orizzonte di senso entro cui tutti gli orizzonti generali si inscrivono. e qui io mi/vi domando: possiamo dire che il mondo della vita è "transgenerico" - che guarda caso è l'unica predicazione che Aristotele ci assicurava dell'Essere?)
E noi, alla faccia di ogni amor fati, possiamo "sempre di nuovo" guardare questo eterno ritornare nella sua infinita ricchezza, foriera di dettagli microscopici che aggiornano il senso sin qui compreso e nella certezza dell'orizzonte della vita rinviano ad un futuro che è già qui, eppure non ancora.

Rispondo a Ego.

La questione è il rapporto direi difficile tra fenomenologia ed ermeneutica. La fenomenologia pretende di risolvere la questione dell'interpretazione fondandosi sulla Lebenswelt, che tu definisci come "transgenerica" ed associ come unica predicazione che già Aristotele riconosceva come propria dell'Essere. Temo che la risposta potrebbe essere negativa, nel senso che una categoria transgenerica potrebbe non essere possibile. Wittgenstein negava con forza che fosse possibile costituire categorie omni comprensive, la categoria "gioco" non include a suo dire tutti i giochi, vi saranno sempre giochi che non entreranno in tale classe. Se è così la lebenswelt non può essere l'orizzonte entro cui tutti gli orizzonti generali si inscrivono.
Il problema di Husserl è che la fenomenologia non riesce a sfuggire dall'essere un interpretazione, anzi proprio il suo affermarsi come "scienza rigorosa" indica già sempre esser frutto un'interpretazione.
La fenomenologi Husserliana non offre una reale fondazione che sfugga allo psicologismo, ma si basa sull'impostazione logicista impostata da Frege che di lì a poco entrerà in crisi, perché il tentativo di fondare la matematica sulla logica risulterà un fallimento. Husserl va ai fatti stessi con una sospensione del giudizio che non è realmente tale perchè è già sempre carica di teoria, una zavorra interpretativa che tutto sommato Husserl non pare aver voglia di mettere in discussione, in quanto se avvenisse la messa in crisi del suo atteggiamento epistemologico molto greco, o meglio molto Platonico, la sua filosofia come scienza rigorosa troverebbe parecchi problemi.
Husserl ha perfettamente ragione a sostenere che la scienza europea "obbiettivistica" è solo un ideazione umana e che l'umanità ha dimenticato che è tale, idolatrandola e sottomettendosi ad essa. Anche Nietzsche sarebbe d'accordo su questo però immediatamente farebbe notare che anche la fenomenologia è solo un'altra ideazione, che qui vi sono solo ideazioni ma dietro le idee non c'è un bel niente.
E' ovvio che Husserl produsse la fenomenologia proprio come antidoto contro ogni forma di scetticismo ed irrazionalismo di cui Nietzsche è stato spesso tacciato. Come ormai si sa, ma non si pubblicizza troppo, è l'effetto placebo in ogni "farmaco" a fare almeno metà del lavoro, così ogni ideazione è efficace finché vi si crede, ma è la nostra indomita esigenza di verità che alla fine rende ogni rimedio inefficace.
Su queste basi Husserl e Nietzsche sono antitetici, anche per una sua conseguente vicinanza di quest'ultimo allo storicismo, che Husserl negava andando ricostituire una visione teleologica del mondo.
 
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EgoTrascendentale
view post Posted on 20/6/2009, 17:37




CITAZIONE (GiuseppeMP @ 18/6/2009, 20:49)
Beh, Ego, che la nullificazione non appaia significa che "appare come negata". Non è che non appaia assolutamente, ma appare come qualcosa che, se non fosse negato dalla verità, renderebbe contraddittorio l'incontraddittorio.

quello che poni è un problema che può anche essere corretto nella sua risoluzione.
ma fare questo (porre un problema e fornire soluzione) è possibile solo se c'è un fondamento di base: che il problema ti appaia in qualche modo.
Non devi confondere l'apparire con le considerazioni sull'apparire (appare come negata). queste ultime infatti sono solo sviluppi modali dell'apparire.
certamente il modo come tale inerisce all'apparire per necessità: ovvero, l'apparire appare sempre in qualche modo.
i modi possono essere i più disparati e non necessariamente presenti "attualmente", nell'apparire.
Infatti il drago mi appare nel monitor mentre guardo un anime come nel sogno, come nella figurina ecc.
Il rischio che si pone nel tuo ragionamento non è tanto di incorrere in un errore concettuale, ma ben altro e forse ben peggiore: negare il trasformarsi in altro.
Infatti devi pure ammettere il problema che fu già di platone: il rapporto tra quel che si dice e le cose che sono "dette".
o le parole son altro e quindi il tuo discorso se è vero, diventa falso perchè la parola è altro "da come stanno le cose".
oppure bisogna dire che il tuo discorso non dice il vero in quanto è questo stesso dire, al di la di ogni effettiva correttezza espositiva, il puro vero, il puro "come stanno le cose".
Allora qualsiasi cosa si dica è già vera...
Siamo già tornati di colpo agli eristi?

Edited by EgoTrascendentale - 20/6/2009, 21:31
 
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EgoTrascendentale
view post Posted on 20/6/2009, 18:09




Far, il discorso che fai su Husserl è senza dubbio vero per la fase "platonica", quella statica, quella di Ideen I.
nella Krisis il discorso ha una serie di complicazioni che qui provo ad esporre, e che Husserl aveva chiamato "fenomenologia genetica".
Detto alla buona: il discorso di Husserl si fonda sull'intenzionalità e l'intenzionalità non è solo un andare alle cose stesse. infatti l'andare alle cose stesse presuppone l'intenzionalità.
prima di andare oltre voglio soffermarmi un pò sull'intenzionalità.
Essa, in una parola, è la "relazione" tra noi e le cose.
nell'interrogare noi ci lasciamo guidare sempre dall'oggetto, benchè questo sia filtrato secondo una griglia categoriale che abbiamo in mente.
Ecco che la storiella di MerleaPonty e la montagna non è più una semplice metafora, ma la denuncia di una intrinseca bipolarità della relazione.
non c'è un oggetto senza un soggetto indagatore, ma il soggetto indagatore scompare senza un oggetto da indagare.
e ancora Husserl ci avverte: credere che cambiando le parole le cose spariscano, astraendo qualcosa sparisca, è una ingeuità a cui non dobbiamo cedere.
Dobbiamo infatti capire che se io cambio modo d'approcciare l'oggetto, questo smette di essere tale, ma non scompare.
l'oggetto diventa altro, diventa una cosa.
l'ego-cogito diventa un ex-sistente...
Qui possiamo leggerci dentro l'operazione che fece Heidegger (e io ho già criticato ne "dal soggetto al progetto").
Solo che Heidegger finisce di sbarazzarsi dell'ego trascendentale considerandolo frutto di una idea.
Ma non è così. l'ego trascendentale mica è una trasformazione dell'io.
io sono sempre io (e per Husserl a differenza di Kant, l'io trascendentale non è "un'arte nascosta nell'anima", bensì è "sempre-mia" come direbbe heidegger in essere e tempo, in realtà mutuando la monadologia di quel gran genio che fu Leibniz) al di la di come mi "atteggi", al di la di come mi relazioni.
Infatti fuori dall'ufficio io posso iniziare a parlare dialetto e dimenticarmi completamente della logica trascendentale e fare tutt'altro.
E' nella mia piena libertà.
Per questi motivi Husserl inchioda la filosofia scientifica al mondo della vita.
Attraverso l'epochè noi non solo ci rendiamo conto dei pregiudizi che sono all'opera mentre giudichiamo, ma accade qualcos'altro: inscriviamo i nostri giudizi "scientifici" in un mondo, in una prospettiva, agganciati ad un "relativo" rispetto al quale noi poniamo i nostri giudizi come "irrelatività".
Ed infatti sinchè a partire da questa "irrelavitità" non scopriamo dell'altro (quindi relativo all'irrelatività) noi daremo per buono il "Paradigma" che abbiamo sin qui "ideato", "visto".
Così possiamo sempre di nuovo cambiare liberamente il nostro paradigma.
ed è in questa completa libertà di giudicare secondo un nostro atteggiamento liberamente scelto che noi possiamo anche bleffare dinnanzi al vero, negandolo.
oppure, non riconoscerlo affatto come vero.
Ecco perchè il mondo della vita, io asserisco, va considerato trans-genetico. Perchè esso è oltre ogni "categoria" (quindi anche trans-categoriale) poichè anche pre-categoriale.
Riprenderò in seguito l'argomento per rispondere al tuo scritto
 
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EgoTrascendentale
view post Posted on 21/6/2009, 10:17




Inizio, per mettermi in pari, da qui:

CITAZIONE
tutto è immutabile, e l'immutabile di-viene, nel senso che viene-dal non apparire.

Giuseppe, tu dici una cosa assolutamente vera. però io ti chiedo: e ti pare davvero "niente" questo venire-dal non apparire?
Questa dialettica dell'espressione, che dall'implicito passa all'esplicito (cioè un processo analitico), e che tuttavia aggiunge qualcosa a qualcosa (il novum che appare con quel che già prima appariva che è quindi una sin-tesi) [nota: qui siamo già alla domanda: "com'è possibile un giudizio sintetico a priori?" che tanto ossessionò quel grande maestro di onestà intellettuale che è kant].
A me pare che la questione sia tutta qui, questa dialettica, questo processo (1) è tutto il dramma che ci portiamo dentro: essere - nulla - divenire.
E se proprio di nulla si vuol parlare, se proprio "nulla" vogliamo chiamare questo processo, datemi pure del Nichilista


1= Nota per far: prima che mi alzi la coda citandomi Hegel assicuro: il processo comporta in-sé uno sviluppo sicuramente qualitativo e quantitativo. Per-noi invece non è detto che tale sviluppo venga veramente accolto come tale. Ecco perchè certe questioni le si capiscono solo a distanza di anni. Cosa che accadde per esempio allo stesso Platone, che di allievi modello come Aristotele ne ha avuti solo 1. Lo stesso Hegel è riuscito a fare di "meglio". Allievi capaci di riconsiderare il sistema: Zero. Però di antihegeliani è stato capace di crearne parecchi ;)
 
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EgoTrascendentale
view post Posted on 21/6/2009, 10:37




Per quel che riguarda lo scritto di far su husserl vorrei proseguire con una provocazione:
Considerare un piatto di pasta con le sarde (sarà contento Alan de Cartier ;)).
far, tu immaginala questa pietanza.
Ha dei profumi, ha un sapore, ha una consistenza tattile quando la mastichi e la prendi con le posate, ha dei colori che ti saltano agli occhi (per la serie "una banalità al giorno leva il medico di torno": anche l'occhio vuole la sua parte ;)).
Noi abbiamo queste qualità della nostra buonissima pasta. Eppure... è il colore la pasta?
è il suo sapore?
Già gorgia ci metteva in guardia (nello scritto su Palamede che il mio prof di antica leggeva in chiave trascendentale ante-litteram): non possiamo giudicare le cose dell'udito con la vista, le cose della vista con l'udito ecc.
Sembrerà una stronzata, una banalità colossale eppure quello che Gorgia denuncia non verrà più preso in nessun modo in considerazione sino alla dottrina della Parvenza trascendentale nella 2nd parte della Critica della Ragion pura!!!!
far ne vogliamo parlare dell'eterno ritorno a tavola della pasta con le sarde? ;)
 
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EgoTrascendentale
view post Posted on 21/6/2009, 11:03




Wanna: e se l'eterno ritorno fosse l'eterno ritorno del Presente?
dell'attimo decisivo, in cui noi diciamo "si" o "no" alla vita?
Se fosse un "mero" "carpe diem"?

 
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DrManhattan
view post Posted on 21/6/2009, 12:33




CITAZIONE (EgoTrascendentale @ 21/6/2009, 12:03)
Wanna: e se l'eterno ritorno fosse l'eterno ritorno del Presente?
dell'attimo decisivo, in cui noi diciamo "si" o "no" alla vita?
Se fosse un "mero" "carpe diem"?

Concordo...
Ma altro che mero...
Chiappalo se ci riesci!
:lol:
 
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60 replies since 4/6/2009, 17:27   1360 views
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