Dalla caduta del muro di berlino, il mondo, soprattutto quello occidentale, si è ritrovato vittorioso.
In un certo senso la storia è finita, come ha scritto il fukuyama. Poiché è caduto il comunismo, l’unico regime possibile è quello del capitalismo liberal-democratico.
Il comunismo era il nemico per antonomasia, come per i comunisti il mondo liberale era il nemico. Se viene meno una delle due polarità, viene meno il sistema binario.
Resta il primo, perisce definitivamente il secondo.
Ma abbiamo dimenticato che noi occidentali siamo solo una piccola parte del mondo.
Altre dittature sono sorte. Le dittature islamiche.
In un altro posto discuterò delle dinamiche economiche che hanno consentito l’11 settembre.
Qui mi interessa solo sottolineare le conseguenze.
I termini del problema che voglio tentare di sviluppare sono i seguenti: Libertà Individuale e Sicurezza Sociale.
Ovvero due valori propri della convivenza civile.
Il primo, la libertà individuale, ha dietro di sé l’emancipazione dell’individuo da ogni forma di potere assoluto e di asservimento economico, che ha trovato effettivo riconoscimento nelle costituzioni del diciannovesimo secolo, anche se sul piano delle enunciazioni politiche in senso giuridico-formale.
Sul piano economico-sociale che ne costituisce il profilo essenziale, l’ottocento e gran parte del novecento restano secoli di conquista, per adeguare la realtà effettiva al riconoscimento costituzionale.
La sicurezza sociale sembra essere un valore molto recente, almeno se non si vuol far risalire tale tematica alla giustificazione del potere in chiave hobbesiana.
Ovviamente nell’analisi del fenomeno, preciso che stiamo parlando della sicurezza sociale in una società di uomini liberi, poiché di questo oggi si tratta.
La più comune visione del cittadino come è che sembra accettabile il cautelarsi da un rischio incombente sulla società rinunciando a quelle prerogative che riguardano gli individui in quanto singoli: l‘interesse del gruppo prevale su quello dei singoli.
Il criterio è anche corretto, ma va analizzato nella sua effettiva portata, alla luce soprattutto di una questione nuova.
Nuova poiché legata all’utilizzo delle nuove tecnologie per realizzare programmi di attuazione della sicurezza collettiva.
Questo porta a riflettere sul rapporto tra le garanzie del diritto ed il potere di fatto delle tecnologie manovrare dall’uomo, giustificando la situazione per l’emergenza in atto.
Per chiarire, faccio un excursus storico.
Le costituzioni tra ottocento e novecento avevano contemperato i diritti del cittadino, come esercizio delle sue libertà, con la regola del rispetto dell’ordine pubblico, come strumento di salvaguardia sociale.
Il dibattito politico circa l’effettiva qualità di uno stato liberal-democratrico aveva, tra l’altro, come oggetto proprio ala possibile ampiezza contenutistica di tale norma o complesso di norme.
Oggi non si tratta più di questo: la tecnologia ha innalzato il livello dei rischi sociali, sia attraverso la sua utilizzazione come arma da parte dei terroristi, sia attraverso la risposta dei sistemi di protezione.
Per questo motivo la libertà individuale rischia di diventare in futuro un valore antinomico rispetto alla sicurezza sociale.
In nome della sicurezza collettiva, minacciata dal terrorismo, si potrà usare una tecnologia di controllo ambientale capace di porre nel nulla le moderne libertà del cittadino?
Di prima analisi si più facilmente intuire che il potere di controllo diventerà appannaggio di organismi specializzati (quelli che oggi sono sotto il nome neutro di agenzie) ad alta capacità performativa, retti da logiche tecnocratiche e non democratiche, poiché si sono costituire al di fuori di una chiara responsabilità politico-istituzionale.
Da qui la domanda più ovvio: la nostra società, basata sul benessere, vuole barattare la libertà con la sicurezza?
Porrò quindi due considerazioni in essere: la prima si interrogherà su quale libertà dell’individuo deve essere messa in gioco.
La società contemporanea, nei suoi grandi numeri, sembra essersi abituata ad una libertà individuale senza costi e senza rischi; è quella libertà che si esercita nel privato ed è caratterizzata da scelte utilitaristiche, convenienti, vantaggiose per ciascuno.
Tuttavia, la libertà, come gesto politico proprio del cittadino di fronte allo stato, è divenuto un accadimento desueto, poiché sembra che oramai si sia diffuso un senso indifferente di accettazione di una realtà concepita come polverizzazione dei meri centri di potere; le domande fondamentali circa la legittimità e la legalità degli atti compiuti dalle autorità di governo (legislativo ed amministrativo) sembra siano soddisfatte dalla mera vigenza nominalistica e formale del modello democratico liberale.
In particolare emerge problematicamente la questione circa la legittimazione soggettiva (istituzionale e costituzionale) di quegli organismi che sono chiamati ad operare tale controllo tecnologico.
La seconda si interrogherà sulla nuova forma di terrore che minaccia il nostro vivere collettivo: il terrorismo internazionale.
Ma il terrorismo come fenomeno generale è qualcosa di nuovo nella storia? No.
Ogni epoca ha conosciuto momenti di terrore politico, funzionali al ristabilimento dell’ordine costituito o di un ordine alternativo.
Sotto tale profilo, il terrore ha ricevuto una sorta di riconoscimento istituzionale e di giustificazione politico-razionale.
Dalle liste di proscrizione del silla al terrore dellaa rivoluzione francese, o più recentemente lager, logai e gulag, ci troviamo di fronte a fenomeni praticati con estrema lucidità di fini.
Le caratteristiche di questo tipo storicamente tradizionale di terrore sono sostanzialmente due, a volte congiunte, a volte disgiunte: l’imprevedibilità e la sorpresa dell’operazione (il dove, il come, il quando) e l’innocenza della vittima.
Questa ultima non viene colpita per colpe specificamente a lei ascrivibili, ma per il significato simbolico che essa incarna, a causa del suo oggettivo ruolo sociale o politico.
Ignoto è spesso anche l’esecutore, esso si ascrive ad un gruppo di specifica appartenenza (tutti siamo soliti dire “l’attentato è stato compiuto dalle brigate rosse o da alkaida”, ma non diciamo “il mister mohammed ha fatto un attentato con ideale di”).
Occorre però tracciare una differenza tra il terrore rivoluzionario e quello attuato nelle guerre civili.
Il primo è identificabile per le sue conseguenze. Questo perché la rivoluzione implica un perfezionamento o un bene assoluto, e qualunque mezzo e vittima è accettabile.
Il secondo è solo una violenza dimostrativa, e questo concetto è giustificato dal fatto che uno dei due soggetti in lotta non è identificabile (Due soldati al fronte si riconoscono due nemici; ma un soldato a kabul come distingue il terrorista?).
In questo tipo di scontro bellico la paura profusa nell’ambiente sociale costituisce un’arma efficace, poiché costituisce la dimostrazione dell’effettività di potere, prima ancora di una sua legittimazione costituzionale.
Nelle guerre convenzionali i soldati si scontrano, sono marcati e sono differenziati. Da ciò discende una reciprocità prevedibile di possibilità di offesa e difesa (fatto salva la differenza tecnologica).
Proprio la parità di posizione e la reciprocità di riconoscimento costituiscono quegli elementi che hanno fatto si che la guerra sviluppasse un proprio diritto a garanzia dei civili e dei prigionieri.
Tornando alla guerriglia, a priori viene meno il riconoscimento, questo fa venir meno la posizione di parità delle posizioni nello scontro e la prevedibile reciprocità delle azioni di offesa e difesa.
La differenza è cruciale, oserei dire fondamentale, se non il perno su cui ruota tutt’ora tutto il nostro mondo occidentale.
In un contesto bellico simile, la controparte perde la sua identità di nemico istituzionale e ne assume un’altra: quella di soggetto civile che si oppone con la violenza all’ordine costituito.
In parole povere passa da nemico a criminale. Criminale da punire e perseguitare nel modo più esemplare possibile, l’ambiente che lo protegge e favorisce viene interpretato come complice, e quindi anche se innocente, va punito con la forza.
È su questo meccanismo che la paura svolge il suo efficace ruolo terrifico.
Il fenomeno del terrorismo, pur conservando molti tratti di quello tradizionale, è una pratica bellica che, operando in un contesto politico del tutto nuovo rispetto al passato (la globalizzazione di cui scriverò un’altra volta) obbliga a qualche specifica riflessione, su due novità introdotte.
La prima è appunto la globalizzazione. Non la tratterò qui, ma mi limito a dire che questo concetto ha reso più labile l’idea di confine nazionale e di stato, come soggetto unico della sovranità anche a livello internazionale.
La seconda, e ben più interessante, è rappresentata dall’idea, affermatasi dopo la fine della seconda guerra mondiale tra le potenze europee del mondo occidentale che ogni conflitto tra gli stati dovesse essere regolato in modo pacifico.
Da ciò nasce quindi una serie di organismi soprannazionali, il più conosciuto è l’ONU.
Entrambe queste novità del dopoguerra però non hanno eliminato i conflitto o comunque non li hanno fatti affievolire.
Da un lato, invece vi sono gli stati che hanno aderito al nuovo ordine soprannazionale, senza tuttavia rinunciare alla effettività del proprio potere materiale sullo scenario internazionale; dall’altro quei popoli, spesso senza uno stato di riferimento, che on riconoscono un tale ordine fondato sull’idea di pace tra stati.
Ne consegue che la novità della violenza sta nella sua interpretazione come una sorta di guerra civile globalizzata tra i detentori dell’ordine sopranazionale costituito ed i suoi oppositori.
Di qui due conseguenze (curiosamente tutto in questa discussione si gioca sul due
)
La prima è nota: il terrorismo diviene una pratica normale di lotta e non è più una pratica eccezionale all’interno della guerra convenzionale.
La secondo è più sottile: il confronto bellico viene interpretato, dai detentori dell’ordine soprannazionale, come un’azione di polizia da attuarsi contro chi viola l’ordine (per esempio uno stato riottoso a mettersi in ordine), il quale assume a tutti gli effetti la qualificazione giuridica di criminale privo delle garanzie personali che erano appannaggio del nemico prigioniero.
Insomma: è venuta meno la figura del nemico, ma non certo la violenza a livello planetario. Il nuovo soggetto della violenza è un puro criminale, sia esso uno stato oppure un popolo o un gruppo religioso, dotato di una propria identità transnazionale e transtatuale.
Questo scenario modifica l’antica teoria della guerra giusta.
Una guerra era giusta perché compiuta a fini di difesa. Oggi invece si legittima una guerra immediatamente offensiva interpretata come azione preventiva per battere sul tempo chi potrebbe attentare all’ordine soprannazionale, promossa da quello stato o da quegli stati che si auto-legittimano come gendarmi ella pace mondiale.
Dico auto-legittimano riguardo agli eventi passati dell’America, di Israele, dell’Inghilterra ed altri stati (con guerre meno famose) perché spesso hanno combattuto anche contro la deliberazione dell’istituzione giuridica sovrannazionale garante proprio di quella medesima pace: l’ONU.
Sotto questo profilo la crisi irachena, scoppiata nel 2002, può essere intesa come la prima guerra post-moderna: un guerra fondata sul disconoscimento delle categorie giuridiche che ruotano attorno all’idea di sovranità (l’Iraq all’epoca era uno stato sovrano secondo le norme di riconoscimento del diritto internazionale) in tutte le sue proiezioni, non solo quelle istituzionali interne ed internazionali, ma anche quelle che si riflettono sui rapporto di potere economico transnazioanle e istizioni politiche territoriali.
Insomma la questione della sicurezza e della libertà va esaminata alla luce delle complessissima e confusa situazione politica, nella quale le categorie politiche e giuridiche sembrano essere entrare in una crisi irreversibile di significato.
Per questo io ritengo condivisibile una riallocazione del progetto democratico sulla scena mondiale. Questo è il motivo per cui ho sempre sostenuto e votato partiti localisti ed anti-europeisti (Lega Nord).