Riflessione sulla libertà civile e la sicurezza sociale

« Older   Newer »
  Share  
Leoben Conoy
view post Posted on 3/9/2009, 10:08




Dalla caduta del muro di berlino, il mondo, soprattutto quello occidentale, si è ritrovato vittorioso.

In un certo senso la storia è finita, come ha scritto il fukuyama. Poiché è caduto il comunismo, l’unico regime possibile è quello del capitalismo liberal-democratico.

Il comunismo era il nemico per antonomasia, come per i comunisti il mondo liberale era il nemico. Se viene meno una delle due polarità, viene meno il sistema binario.

Resta il primo, perisce definitivamente il secondo.

Ma abbiamo dimenticato che noi occidentali siamo solo una piccola parte del mondo.

Altre dittature sono sorte. Le dittature islamiche.

In un altro posto discuterò delle dinamiche economiche che hanno consentito l’11 settembre.

Qui mi interessa solo sottolineare le conseguenze.

I termini del problema che voglio tentare di sviluppare sono i seguenti: Libertà Individuale e Sicurezza Sociale.

Ovvero due valori propri della convivenza civile.

Il primo, la libertà individuale, ha dietro di sé l’emancipazione dell’individuo da ogni forma di potere assoluto e di asservimento economico, che ha trovato effettivo riconoscimento nelle costituzioni del diciannovesimo secolo, anche se sul piano delle enunciazioni politiche in senso giuridico-formale.

Sul piano economico-sociale che ne costituisce il profilo essenziale, l’ottocento e gran parte del novecento restano secoli di conquista, per adeguare la realtà effettiva al riconoscimento costituzionale.

La sicurezza sociale sembra essere un valore molto recente, almeno se non si vuol far risalire tale tematica alla giustificazione del potere in chiave hobbesiana.

Ovviamente nell’analisi del fenomeno, preciso che stiamo parlando della sicurezza sociale in una società di uomini liberi, poiché di questo oggi si tratta.

La più comune visione del cittadino come è che sembra accettabile il cautelarsi da un rischio incombente sulla società rinunciando a quelle prerogative che riguardano gli individui in quanto singoli: l‘interesse del gruppo prevale su quello dei singoli.

Il criterio è anche corretto, ma va analizzato nella sua effettiva portata, alla luce soprattutto di una questione nuova.

Nuova poiché legata all’utilizzo delle nuove tecnologie per realizzare programmi di attuazione della sicurezza collettiva.

Questo porta a riflettere sul rapporto tra le garanzie del diritto ed il potere di fatto delle tecnologie manovrare dall’uomo, giustificando la situazione per l’emergenza in atto.

Per chiarire, faccio un excursus storico.

Le costituzioni tra ottocento e novecento avevano contemperato i diritti del cittadino, come esercizio delle sue libertà, con la regola del rispetto dell’ordine pubblico, come strumento di salvaguardia sociale.

Il dibattito politico circa l’effettiva qualità di uno stato liberal-democratrico aveva, tra l’altro, come oggetto proprio ala possibile ampiezza contenutistica di tale norma o complesso di norme.

Oggi non si tratta più di questo: la tecnologia ha innalzato il livello dei rischi sociali, sia attraverso la sua utilizzazione come arma da parte dei terroristi, sia attraverso la risposta dei sistemi di protezione.

Per questo motivo la libertà individuale rischia di diventare in futuro un valore antinomico rispetto alla sicurezza sociale.

In nome della sicurezza collettiva, minacciata dal terrorismo, si potrà usare una tecnologia di controllo ambientale capace di porre nel nulla le moderne libertà del cittadino?

Di prima analisi si più facilmente intuire che il potere di controllo diventerà appannaggio di organismi specializzati (quelli che oggi sono sotto il nome neutro di agenzie) ad alta capacità performativa, retti da logiche tecnocratiche e non democratiche, poiché si sono costituire al di fuori di una chiara responsabilità politico-istituzionale.

Da qui la domanda più ovvio: la nostra società, basata sul benessere, vuole barattare la libertà con la sicurezza?

Porrò quindi due considerazioni in essere: la prima si interrogherà su quale libertà dell’individuo deve essere messa in gioco.

La società contemporanea, nei suoi grandi numeri, sembra essersi abituata ad una libertà individuale senza costi e senza rischi; è quella libertà che si esercita nel privato ed è caratterizzata da scelte utilitaristiche, convenienti, vantaggiose per ciascuno.

Tuttavia, la libertà, come gesto politico proprio del cittadino di fronte allo stato, è divenuto un accadimento desueto, poiché sembra che oramai si sia diffuso un senso indifferente di accettazione di una realtà concepita come polverizzazione dei meri centri di potere; le domande fondamentali circa la legittimità e la legalità degli atti compiuti dalle autorità di governo (legislativo ed amministrativo) sembra siano soddisfatte dalla mera vigenza nominalistica e formale del modello democratico liberale.

In particolare emerge problematicamente la questione circa la legittimazione soggettiva (istituzionale e costituzionale) di quegli organismi che sono chiamati ad operare tale controllo tecnologico.

La seconda si interrogherà sulla nuova forma di terrore che minaccia il nostro vivere collettivo: il terrorismo internazionale.

Ma il terrorismo come fenomeno generale è qualcosa di nuovo nella storia? No.

Ogni epoca ha conosciuto momenti di terrore politico, funzionali al ristabilimento dell’ordine costituito o di un ordine alternativo.

Sotto tale profilo, il terrore ha ricevuto una sorta di riconoscimento istituzionale e di giustificazione politico-razionale.

Dalle liste di proscrizione del silla al terrore dellaa rivoluzione francese, o più recentemente lager, logai e gulag, ci troviamo di fronte a fenomeni praticati con estrema lucidità di fini.

Le caratteristiche di questo tipo storicamente tradizionale di terrore sono sostanzialmente due, a volte congiunte, a volte disgiunte: l’imprevedibilità e la sorpresa dell’operazione (il dove, il come, il quando) e l’innocenza della vittima.

Questa ultima non viene colpita per colpe specificamente a lei ascrivibili, ma per il significato simbolico che essa incarna, a causa del suo oggettivo ruolo sociale o politico.

Ignoto è spesso anche l’esecutore, esso si ascrive ad un gruppo di specifica appartenenza (tutti siamo soliti dire “l’attentato è stato compiuto dalle brigate rosse o da alkaida”, ma non diciamo “il mister mohammed ha fatto un attentato con ideale di”).

Occorre però tracciare una differenza tra il terrore rivoluzionario e quello attuato nelle guerre civili.

Il primo è identificabile per le sue conseguenze. Questo perché la rivoluzione implica un perfezionamento o un bene assoluto, e qualunque mezzo e vittima è accettabile.

Il secondo è solo una violenza dimostrativa, e questo concetto è giustificato dal fatto che uno dei due soggetti in lotta non è identificabile (Due soldati al fronte si riconoscono due nemici; ma un soldato a kabul come distingue il terrorista?).

In questo tipo di scontro bellico la paura profusa nell’ambiente sociale costituisce un’arma efficace, poiché costituisce la dimostrazione dell’effettività di potere, prima ancora di una sua legittimazione costituzionale.

Nelle guerre convenzionali i soldati si scontrano, sono marcati e sono differenziati. Da ciò discende una reciprocità prevedibile di possibilità di offesa e difesa (fatto salva la differenza tecnologica).

Proprio la parità di posizione e la reciprocità di riconoscimento costituiscono quegli elementi che hanno fatto si che la guerra sviluppasse un proprio diritto a garanzia dei civili e dei prigionieri.

Tornando alla guerriglia, a priori viene meno il riconoscimento, questo fa venir meno la posizione di parità delle posizioni nello scontro e la prevedibile reciprocità delle azioni di offesa e difesa.

La differenza è cruciale, oserei dire fondamentale, se non il perno su cui ruota tutt’ora tutto il nostro mondo occidentale.

In un contesto bellico simile, la controparte perde la sua identità di nemico istituzionale e ne assume un’altra: quella di soggetto civile che si oppone con la violenza all’ordine costituito.

In parole povere passa da nemico a criminale. Criminale da punire e perseguitare nel modo più esemplare possibile, l’ambiente che lo protegge e favorisce viene interpretato come complice, e quindi anche se innocente, va punito con la forza.

È su questo meccanismo che la paura svolge il suo efficace ruolo terrifico.

Il fenomeno del terrorismo, pur conservando molti tratti di quello tradizionale, è una pratica bellica che, operando in un contesto politico del tutto nuovo rispetto al passato (la globalizzazione di cui scriverò un’altra volta) obbliga a qualche specifica riflessione, su due novità introdotte.

La prima è appunto la globalizzazione. Non la tratterò qui, ma mi limito a dire che questo concetto ha reso più labile l’idea di confine nazionale e di stato, come soggetto unico della sovranità anche a livello internazionale.

La seconda, e ben più interessante, è rappresentata dall’idea, affermatasi dopo la fine della seconda guerra mondiale tra le potenze europee del mondo occidentale che ogni conflitto tra gli stati dovesse essere regolato in modo pacifico.

Da ciò nasce quindi una serie di organismi soprannazionali, il più conosciuto è l’ONU.

Entrambe queste novità del dopoguerra però non hanno eliminato i conflitto o comunque non li hanno fatti affievolire.

Da un lato, invece vi sono gli stati che hanno aderito al nuovo ordine soprannazionale, senza tuttavia rinunciare alla effettività del proprio potere materiale sullo scenario internazionale; dall’altro quei popoli, spesso senza uno stato di riferimento, che on riconoscono un tale ordine fondato sull’idea di pace tra stati.

Ne consegue che la novità della violenza sta nella sua interpretazione come una sorta di guerra civile globalizzata tra i detentori dell’ordine sopranazionale costituito ed i suoi oppositori.

Di qui due conseguenze (curiosamente tutto in questa discussione si gioca sul due :D)

La prima è nota: il terrorismo diviene una pratica normale di lotta e non è più una pratica eccezionale all’interno della guerra convenzionale.

La secondo è più sottile: il confronto bellico viene interpretato, dai detentori dell’ordine soprannazionale, come un’azione di polizia da attuarsi contro chi viola l’ordine (per esempio uno stato riottoso a mettersi in ordine), il quale assume a tutti gli effetti la qualificazione giuridica di criminale privo delle garanzie personali che erano appannaggio del nemico prigioniero.

Insomma: è venuta meno la figura del nemico, ma non certo la violenza a livello planetario. Il nuovo soggetto della violenza è un puro criminale, sia esso uno stato oppure un popolo o un gruppo religioso, dotato di una propria identità transnazionale e transtatuale.

Questo scenario modifica l’antica teoria della guerra giusta.

Una guerra era giusta perché compiuta a fini di difesa. Oggi invece si legittima una guerra immediatamente offensiva interpretata come azione preventiva per battere sul tempo chi potrebbe attentare all’ordine soprannazionale, promossa da quello stato o da quegli stati che si auto-legittimano come gendarmi ella pace mondiale.

Dico auto-legittimano riguardo agli eventi passati dell’America, di Israele, dell’Inghilterra ed altri stati (con guerre meno famose) perché spesso hanno combattuto anche contro la deliberazione dell’istituzione giuridica sovrannazionale garante proprio di quella medesima pace: l’ONU.

Sotto questo profilo la crisi irachena, scoppiata nel 2002, può essere intesa come la prima guerra post-moderna: un guerra fondata sul disconoscimento delle categorie giuridiche che ruotano attorno all’idea di sovranità (l’Iraq all’epoca era uno stato sovrano secondo le norme di riconoscimento del diritto internazionale) in tutte le sue proiezioni, non solo quelle istituzionali interne ed internazionali, ma anche quelle che si riflettono sui rapporto di potere economico transnazioanle e istizioni politiche territoriali.

Insomma la questione della sicurezza e della libertà va esaminata alla luce delle complessissima e confusa situazione politica, nella quale le categorie politiche e giuridiche sembrano essere entrare in una crisi irreversibile di significato.

Per questo io ritengo condivisibile una riallocazione del progetto democratico sulla scena mondiale. Questo è il motivo per cui ho sempre sostenuto e votato partiti localisti ed anti-europeisti (Lega Nord).
 
Top
The Shrike
view post Posted on 5/9/2009, 19:41




Bella riflessione, anche se come spesso abbiamo discusso non condivido il tuo modo di reagire alle nazioni europee. Però mi spieghi perché, alcune tue frasi sono proprio quelle che ho appuntato pari pari dal prof della lezione su questo argomento tenuto a marzo? :P Studio profondo? :lol:
 
Top
Farvat
view post Posted on 6/9/2009, 18:24




L'argomento è sicuramente molto attuale, ma il suo svolgimento per quanto apra lucidi sprazzi di luce teoretica risulta abbastanza sconclusionato, si parte da premesse basate su luoghi comuni pregiudiziali di stampo politico-ideologico, imposti come indiscutibili, non smentibili perché eletti a "fatti" confermati dagli eventi storici, poi con una serie di passaggi anche molto interessanti si salta ad una conclusione, quella della necessità di aderire alle forze politiche che promuovono la chiusura nel regionalismo localistico, che risulta ingiustificata perché mancante dei passaggi del ragionamento che dovrebbe razionalmente condurre lì. Voglio dire, la Lega Nord è senz'altro un frutto della reazione al fenomeno che viene definito "globalizzazione" ma non è mica l'unica forma del "No-Global" semmai è espressamente quello espresso dall'estrema Destra, ovvero un riadattamento del vecchio "nazional-socialismo" che visto il crollo del valore di nazione, cede terreno per trincerarsi in una sorta di regional-socialismo che pretende di difendere interessi economico-sociali di stampo locale, in nome di un'identità inventata (quella padana) che politicamente ha perso la dimensione poco praticabile ed infruttuosa del secessionismo, per proporre un programma più percorribile che è indicato con il termine "Federalismo".
Del resto le analogie tra lo scenario su cui si sviluppò il movimento Nazista, la recessione economica, i caos sociali post-bellici, il sorgere di movimenti socialisti locali (Socialismo Bavarese), la forte esigenza di riaffermare un identità nazionale in crisi e di rafforzarla tramite l'esigenza xenofoba del "nemico" esterno ed interno come capro espiatorio al fine di addormentare la "lotta di classe", l'esigenza di darsi delle divise, di militarizzarsi, sono tutti sintomi già visti operare in precedenza, e del resto alcuni membri della lega nord nei comportamenti, nei proclami ricordano espressamente di essere solo il vecchio travestito da nuovo ed in qualche caso lo ammettono pure sfacciatamente ed in via ufficiosa. Allora la domanda che sorge spontanea e come sia possibile che tu venga a proporre un partito simile come soluzione alla crisi globale che la nostra società attraversa?
La risposta verte naturalmente sui passaggi mancanti del tuo ragionamento che mancano proprio perché sono le premesse ad essere sbagliate ed essendo tali escludono fin dall'inizio automaticamente concetti che sarebbero necessari per sviluppare pienamente il sillogismo. In particolare la conclusione tipica di stampo fukuyamaista della fine della storia, cioè della cessazione della contrapposizione dialettica interna al fenomeni storico sociali, cioè del venir meno della categoria di "classe" sociale interna alla società occidentale capitalista oramai "vittoriosa" e che vince perchè annienta la lotta di classe stratificando in modo molteplice la società eleggendo il cosiddetto ceto medio a tipo dominante, che immerso in un benessere che promette di essere progressivamente crescente non ha più bisogno di manifestare l'esigenza della rivoluzione. Ma se è così, se la storia è finita, come mai allora la classe media svanisce progressivamente dalla società occidentale opulenta e capitalista? Se la società ritorna ad essere una contrapposizione tra poveri e ricchi, tra sfruttai e sfruttatori, allora in barba a Fukuyama la storia riprende il suo corso e la strada sbarrata per assioma fin dall'inizio del tuo discorso, sorprendentemente si riapre e ritorna in campo il socialismo nelle sue molteplici forme e derive. Così tu voti la Lega Nord, non tanto perché il Capitalismo liberal democratico ha trionfato ma perché come Marx insegna è proprio il suo supremo trionfo che ne prepara il crollo rovinoso in quanto il sistema non ha più risorse da consumare per alimentare la sua insensata crescita infinità e si ripiega su un pianeta sempre più piccolo, arido di risorse e claustrofobico. Emblema di questa situazione sono gli statunitensi che abbandonano senza benzina, le loro mastodontiche automobili sulla corsia d'emergenza delle loro "Highway" dirette verso il futuro e oramai disoccupati, senza un dollaro e sommersi di debiti vagano in cerca di una nuova dimora, un nuovo sogno, ma tristemente lo fanno a piedi.
Il successo attuale della lega nord si spiega solo quando si denunciano le sue radici "nazional-socialiste" che è il modo che la Destra prende atto che la lotta di classe è in atto ed essendo la Sinistra latitante o perché il cosiddetto "proletariato" non ha raggiunto la coscienza piena di sè e quindi non è in grado di predisporsi e progettare la rivoluzione, assume in prima persona il compito di stabilizzare il conflitto sociale, cercando con la svolta autoritaria ed autocratica di salvare il sistema capitalistico in crisi. In fondo come espressamente affermato dai dirigenti "leghisti" il loro ruolo è ormai analogo a quello che svolgeva la sinistra, ma che essendosi suicidata alla caduta del muro, per migrare politicamente verso un centralismo insapore per torvare un posto sul carro dei vincitori, non è più in grado di rispondere alle esigenze concrete del proprio elettorato che chiede difese contro il mercato globale, e non trovandole si abbandona al populismo leghista.
 
Top
EgoTrascendentale
view post Posted on 7/9/2009, 06:47




CITAZIONE (Leoben Conoy @ 3/9/2009, 11:08)
Dalla caduta del muro di berlino, il mondo, soprattutto quello occidentale, si è ritrovato vittorioso.

In un certo senso la storia è finita, come ha scritto il fukuyama. Poiché è caduto il comunismo, l’unico regime possibile è quello del capitalismo liberal-democratico.

Il comunismo era il nemico per antonomasia, come per i comunisti il mondo liberale era il nemico. Se viene meno una delle due polarità, viene meno il sistema binario.

Resta il primo, perisce definitivamente il secondo.

Ma abbiamo dimenticato che noi occidentali siamo solo una piccola parte del mondo.

io non sono tanto d'accordo. io ricordo, avevo circa 12-13 anni, una considerazione che mi scappò come battuta di spirito, facciamo finta che sia stata un errore di gioventù scherzare col fuoco, ma che col tempo mi è sembrata la sola considerazione politica corretta che potessi avanzare.
la caduta del muro ha fatto sì non che il mondo occidentale vincesse, ma che il mondo "orientale" perdesse.
infatti io mi ricordo della versione "rumena" della caduta del muro.
quel misero pezzo di pane che i romeni ricevano dal muro venne a mancare quando venne a mancare il muro.
ciò non è proprio un bene, non è proprio una vittoria.
vallo a dire a chi muore di fame che la storia è finita, che non c'è più niente da sapere, da dire, da raccontare.
del resto, dal punto di vista del metodo, si rende necessario da parte tua chiarire il concetto di storia.
e bisogna chiarirlo in modo che la storia possa essere detta "finita".
del resto la storia che tu chiami in causa, non è "la" storia, bensì storia di un sistema binario, che, crollato, fa finire la storia.


CITAZIONE (Leoben Conoy @ 3/9/2009, 11:08)
Altre dittature sono sorte. Le dittature islamiche.

In un altro posto discuterò delle dinamiche economiche che hanno consentito l’11 settembre.

Qui mi interessa solo sottolineare le conseguenze.

io non credo che la dittatura islamica - su quest'espressione vorrei un chiarimento, grazie -, sia sorta solo adesso, come se qualcuno, caduto il muro, abbia voluto, per amore della storia, riproporre il sistema binario. Aspetto di leggere la tua analisi sulla dinamica "11 settembre".

CITAZIONE (Leoben Conoy @ 3/9/2009, 11:08)
I termini del problema che voglio tentare di sviluppare sono i seguenti: Libertà Individuale e Sicurezza Sociale.

Ovvero due valori propri della convivenza civile.

Il primo, la libertà individuale, ha dietro di sé l’emancipazione dell’individuo da ogni forma di potere assoluto e di asservimento economico, che ha trovato effettivo riconoscimento nelle costituzioni del diciannovesimo secolo, anche se sul piano delle enunciazioni politiche in senso giuridico-formale.

Sul piano economico-sociale che ne costituisce il profilo essenziale, l’ottocento e gran parte del novecento restano secoli di conquista, per adeguare la realtà effettiva al riconoscimento costituzionale.

sono d'accordo e non sono d'accordo. il potere assoluto, se ti va, ha cambiato figura (vedi il capitalismo da cui prendi le mosse).
diciamo che il potere assoluto, mutata la figura, concede fittiziamente un potere all'individuo, perchè non sentendosi oppresso, non si arma e si da alla rivoluzione, o alla restaurazione dell'epoca del terrore francese.


CITAZIONE (Leoben Conoy @ 3/9/2009, 11:08)
La sicurezza sociale sembra essere un valore molto recente, almeno se non si vuol far risalire tale tematica alla giustificazione del potere in chiave hobbesiana.

Ovviamente nell’analisi del fenomeno, preciso che stiamo parlando della sicurezza sociale in una società di uomini liberi, poiché di questo oggi si tratta.

manca il concetto di "uomini liberi"!!

CITAZIONE (Leoben Conoy @ 3/9/2009, 11:08)
La più comune visione del cittadino come è che sembra accettabile il cautelarsi da un rischio incombente sulla società rinunciando a quelle prerogative che riguardano gli individui in quanto singoli: l‘interesse del gruppo prevale su quello dei singoli.

Il criterio è anche corretto, ma va analizzato nella sua effettiva portata, alla luce soprattutto di una questione nuova.

Nuova poiché legata all’utilizzo delle nuove tecnologie per realizzare programmi di attuazione della sicurezza collettiva.

Questo porta a riflettere sul rapporto tra le garanzie del diritto ed il potere di fatto delle tecnologie manovrare dall’uomo, giustificando la situazione per l’emergenza in atto.

"chi custodirà i custodi?" si domandava kant lettore di platone filosofo politico.
ed è quello che dovrebbe chiedersi "la più comune visione del cittadino".

sul resto rispondo poi ;)
 
Top
3 replies since 3/9/2009, 10:08   176 views
  Share