Etica/Morale...atea?

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The Shrike
view post Posted on 12/2/2010, 10:23




Di recente, studiando alcune nozioni di teoria generale di Diritto, mi sono ritrovato a riflettere. Ma è possibile fondare un'etica o una morale senza la necessità di Dio? Perché più ci rifletto e più, senza Dio, viene meno quella conditio sine qua non tutti sono in un qualche modo indirizzati a migliorarsi. Voi che dite?
 
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EgoTrascendentale
view post Posted on 12/2/2010, 12:46




poni una tematica interessante che io sposterei in sede principale.
Proporrei, in modo del tutto provocatorio, l'espressione di kant, per quale, la dimostrazione di dio, ovvero una sua qualsiasi manifestazione palese e sensibile, altro non comporti se non la distruzione della legge morale.
Dio, argomenta infatti kant, apparendo in tutta la sua gloria, mi costringerebbe a seguire la legge morale.
in quanto costretto allora, il mio atto non è più morale per libertà ma per necessità.
l'argomento è sottile e mette in un certo senso fuori dai giochi il dio.
Se da un lato egli è necessario come sfondo, poichè è relegato sullo sfondo esso non è in primo piano, ove troviamo semmai la dicotomia tra dovere e volere.
Per non appesantire la delicata questione per ora mi fermo qui.
 
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The Shrike
view post Posted on 12/2/2010, 13:32




Ed è esattamente qui che il buon Kelsen gioca la sua sfida concettuale.
Kelsen, nel suo occuparsi di come il diritto è (e non di come deve essere) va ben oltre la distinzione tra essere e dover essere, assume un determinato ideale di scienza (composta solo di enunciati descrittivi verificabili) e su ciò stabilisce che l'ambito dei valori e delle prescrizioni è in sé irrazionale. Perché, secondo Kelsen, se l'ambito delle valutazioni fosse razionale, non sarebbe libero (verrebbe meno la differenza tra fatti e norme).
Il kelsy si spinge addirittura a dire che se esiste Dio "non può più distinguere nemmeno tra legge morale e legge naturale". [Dottrina Pura del Diritto, 1934] Una legge è morale proprio perché non è naturale, quindi le norme di legge morale naturale sono un'antinomia.
Successivamente l'Hans, ne Il problema della Giustizia de 1960, arriva a dire che il termine "ragion pratica" di Kant è un paradosso. Kelsen accusa Kant di non aver combattuto davvero la metafisica, ma di aver proposto un blando compromesso, per questo non si trova in Kant il relativismo tipico di chi elimina la metafisica (secondo Kelsy, of course). Lui sostiene che la ragion pratica non ha affatto lo scopo di dimostrare ciò che è bene e ciò che è male (insomma, di fondare un normativismo etico), ma si limita ad accertare a quale condizione logica sono possibili i giudizio secondo cui qualcosa è bene e qualcosa è male.
Kels sosteiene che Kant pretende di dedurre la razionalmente la giustizia dalle massime del processo di universalizzazione, ma invece non fa che presupporre una determinata intuizione, non razionale, della giustizia. Le idee quali "Sempre" e "Di Tutti" sono solo nella nostra testa, non hanno riscontro pratico ed empirico. Quindi l'universalizzazione non si può basare sulla nostra esperienza, ma solo su un'idea pre-esistente nella nostra testa (di cosa sia la razionalità, la finitezza ecc).
Secondo Kelsen, un'idea del genere a premessa di fondare un ragionamento, altro non può essere se non irrazionale.

E qui mi fermo perché poi persone molto fini come il Rawls risposero a Kelsy e non voglio anticipare tutto :P
 
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Sgubonius
view post Posted on 13/2/2010, 06:54




CITAZIONE (EgoTrascendentale @ 12/2/2010, 12:46)
Per non appesantire la delicata questione per ora mi fermo qui.

Rigiro la frittata però!!!

Kant dice soprattutto e in primis che senza Dio non sussiste nessuna legge morale, cioè quanto diceva TheShrike: nessuna ragion pratica susssiste altrimenti (non si rende mai veramente conto solo a se stessi, altrimenti siamo al superuomo nietzschiano che sposta i valori a posteriori ed è sempre tutto giusto). E' vero quindi che l'equilibrio libertà-morale è delicato, ma Dio è in primissimo piano (sarà Schelling poi a fare sua questa idea facendo di Dio il fondamento della libertà stessa e risolvendo alcune aporie kantiane).

Io non vorrei dover difendere Kant, non ne sarei capace e non sono ferrato in materia, però le critiche di Kelsen mi paiono del tutto fuori bersaglio... più che altro Kelsen sembra non interessarsi alla parte di critica della ragion pura e del giudizio e non cogliere così il panorama del progetto kantiano. Certo la ragion pratica da sola non ha alcun senso.
 
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EgoTrascendentale
view post Posted on 13/2/2010, 19:48




x sgorbius: la mia posizione complessiva nei confronti della crp è espressa nel topic di cui allego link se non ho cambiato idea da quando l'ho scritto ma l'ho lasciato incompleto.
https://filosofiapura.forumfree.it/?t=21413461
vorrei però rimarcare il distico di kant:
Legge morale = "ratio cognoscendi" della libertà
Libertà = "ratio essendi" della legge morale.
e qui di dio neanche l'ombra.
del resto kant ha il problema di non poter dire <<"il comandamento non uccidere" è un peccato>>; <<il nono comandamento è peccato>>, quindi trattasi di gesto immorale.
no, kant non può farlo.
kant può dire: se il gesto X è fatto così e così, esso è un atto immorale. Quindi, la moralità in kant è puramente formale.
Ben più necessario mi sembra il dogma dell'immortalità dell'anima.
dio è garante, ma ciò che va garantito è prodotto dall'uomo.

per quanto riguarda l'autoreferenzialità del diritto, non aggiunge nulla di nuovo alle pretese di assolutezza che ogni scienza pretende per sé.
E' una cosa che è stata anche espressa nel topic su bibbia ed evoluzione.
Ma già Husserl aveva dimostrato, a mio avviso in modo convincente, in un itinerario di pensiero da Ideen I alla Krisis, radicando il fondamento della scienza entro un orizzonte generalissimo, un terreno quale è il mondo della vita

ps: giuro che in questi giorni ritorno a bomba alla questione senza uscire fuori tema ;)
 
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view post Posted on 13/2/2010, 21:19
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Le donne che hanno cambiato il mondo non hanno mai avuto bisogno di mostrare nulla se non la loro intelligenza.

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Ed è per questo che amo la teologia atea di Feuerbach, signori.
Buona prosecuzione.
 
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Sgubonius
view post Posted on 13/2/2010, 23:58




Che Dio finisca per essere postulato dall'uomo, in stretta connessione con l'immortalità dell'anima, è molto evidente (anche se forse mai del tutto esplicito). E senza dubbio rimane la formalità della morale kantiana, formalità che però ha senso nell'incastro delle 3 critiche, cioè come risposta alle domande "che cosa posso ...?" che prevedono già dall'inizio una soluzione formale.

In questa piramide formale la posizione di Dio non è del tutto indifferente, non sarà il "garante della geometria" come in Cartesio, ma è in qualche maniera il garante della libertà (recuperando la metafisica, traslata dalla pura alla pratica), posizione forse anche più fondamentale nell'economia dell'insieme. Dio sarebbe di fatto ratio essendi della libertà, quantomeno della libertà assoluta e capace a sua volta di fare da ratio essendi della legge morale (dato che senza un Dio che letteralmente "valutasse" l'azione morale la libertà sarebbe senza conseguenze morali).

E' chiaro che Kelsen, che più che la giustizia vuole fondare la giurisprudenza (cioè non il Giusto in sé, ma una cosa abbastanza giusta secondo canoni interni), parte da un altro terreno e con altri obbiettivi, per cui non ha molto a che spartire con Kant (che di pratico alla fine ha sempre molto poco).

PS: sul topic specifico ci tornerò quando avrò sufficienti nozioni, magari con lettura integrale della critica della ragion pura almeno!
 
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The Shrike
view post Posted on 14/2/2010, 16:12




Torno ora brevemente sulla questione senza esprimere un punto di vista, ma cercando di tracciare la storia dell'evoluzione del Diritto che stiamo analizzando nel suo aspetto di etica e morale.
Vorrei porre l'attenzione ora su due critici del Kelsen (in realtà sarebbe bene esprimere anche la visione organicista dello Schmitt, ma se anche una parola di favore venisse spesa per il suo pensiero, configurerebbe un'apologia al nazismo). Parliamo quindi del Ralws (che ritiene di riallacciarsi al Kant Originale) e dell'aspro critico Italiano del Kelsen, il Santi Romano.
Partiamo dal Rawls.
Nel 1971, il buon John Rawls, nel Teoria della Giustizia, propone, per superare le incongruenze del mero utilitarismo e del calcolo della felicità benthamiano, alcune invenzioni tramite un gioco mentale. La prima è il "velo dell'Ignoranza". Insomma, per ovviare al mero utilitarismo ed all'egoismo imperante della società americana, Rawls invita ogni persona ad immaginare di dover (partecipare a) decidere in anticipo gli assetti di una ipotetica società giusta, qualora non potesse prevedere quale ruolo sarebbe chiamato a ricoprire in questa società. Rawls quindi non postula un accesso immediato alla ragione ad una dimensione di validità universale, ma, attraverso l'ipotesi del velo dell'ignoranza, invita a correggere l'invevitabile particolarismo della ragione strumentale. Così per Rawls il giusto è il risultato di una costruzione, di una costruzione, laddove il bene è appreso intuitivamente, ed il Giusto ha priorità sul bene. Le domande inerenti a perché gli individui dovrebber dar peso a questa priorità sono risposte, schematicamente, nei due principi formulati da Rawls:
Primo Principio - Ogni persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibile con un simile sistema di libertà per tutti.
Secondo Princpio - Le ineguaglianze economiche e sociali devono essere per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati ee collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità.
Con questa visione Rawls pensa di aver espunto da Kant tutti gli elementi meta-empirici.

Veniamo ora al Santi Romano, in un'ottica di polemica diretta col Kelsen. Egli pensa che le norme giuridiche sono originariamente presenti nelle Istituzioni, cioè nella vita della società [e non che siano solo in dipendenza dell'apparato formale delle norme, come vuole il praghese]. Per Santi le Istituzioni precedono e generano le norme. Per Istituzioni egli intende tutte le unità logico-esistenziali in grado di articolare la razionalità oggettiva che innerva le relazioni sociali ed il vivere associato. Sono chiamate da lui "corpi sociali" e sono ad esempio le comunità storiche, le corporazioni, le associazioni ecc.
Ma perché diventino giuridicamente rilevanti occorre che esse si configurino in una struttura o un'organizzazione , cioè che diano vita ad un'unità giuridicamente autonoma. Cioè in sostanza che i rapporti siano continuativi ed organizzati, poiché essi non istituiscono, solo, le norme, sono essi stessi le norme. Questo prevalere della dimensione storico-materiale fa si che l'ordinamento (e quindi le norme, o la nostra etica-morale) esistano e sono validi solo in virtù del fatto che che essi si radicano in precisi istituti sociali, in quanto effettivamente vissuti nel collettivo

CITAZIONE
E' chiaro che Kelsen, che più che la giustizia vuole fondare la giurisprudenza (cioè non il Giusto in sé, ma una cosa abbastanza giusta secondo canoni interni), parte da un altro terreno e con altri obbiettivi, per cui non ha molto a che spartire con Kant (che di pratico alla fine ha sempre molto poco).

Ti dirò di più. E questo è importante, perché le costituzioni del novecento guardano a Kelsen. Se poniamo una originaria Grundnorm (norma fondamentale; costituzione) essa non rimanda ad una dimensione di carattere storico, etico, religioso, l'ordinamento si giustifica originariamente e tutto è sostenuto dalla grundnorm. Essa quindi è la metanorma delle metanorme (o matrice). è la norma che rende possibili le altre norme, perché si auto-legittima da sola. L'intento è quello di fondare, sue parole, una politica del Diritto.
Questo è importate, perché Kelsy dice che il diritto, l'ordinamento, le norme NON esprimono né perseguono (o devono perseguire) alcune valore (men che meno la giustizia). Vuole "sterilizzare il diritto", per garantire la completa purezza, rendendolo autonomo dall'etica, della religione e dalla filosofia (e, se posso, anche dalla politica). Ma con cil lui fa subordinare tutto dalla mera dimensione formale, per cui una norma esiste solo in virtù della sua forma. Questo lo porta a dire che l'esistenza della norma coicide con la sua validità: una norma esiste se è valida e se è valida esiste.
Penso sia ovvio perché questo genere di teorie è andata discretamente di moda nell'europa continentale.

Edited by The Shrike - 14/2/2010, 21:48
 
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Sgubonius
view post Posted on 14/2/2010, 23:48




Diedi anche io degli esami di diritto (odiatissimi), e uno di questi (si chiamava International Public Law) trattava anche della teoria di Kelsen (la piramide ecc.) in riferimento al fondamento della Costituzione.
Io penso che Kelsen abbia molte ragioni nel suo campo, e infatti mi pare che la sua teoria sia sostanzialmente la base riconosciuta del diritto pubblico. Però questo non fonda il Giusto evidentemente! Ed è "giusto" così. :ph34r:

Però diciamo che tutto questo si allontana un po' (anche gli altri autori da te citati) dalla questione principale, cioè se è possibile un'etica totalmente atea. Un'etica non è un sistema di diritti, di giustizia. Un'etica è piuttosto qualcosa che viene sempre prima, che rende possibile la responsabilità e la punizione. E qui ritengo che l'ateismo totale abbia delle conseguenze non indifferenti (dovrei citare diffusamente la trattazione metaforica che Nietzsche ne fa nello Zarathustra, riguardo l'ultimo uomo), almeno se vogliamo pensarlo seriamente e non solo come aconfessionalità.

Mi sembra che ci sia sempre una distanza incolmabile fra i problemi filosofici (che per me sono sempre etici di fondo, e quindi mai veramente atei) e quelli tecnici delle scienze (che raramente attingono alla sorgente dell'etica in profondità). Per cui alla fine le seconde si auto-fondano e devono auto-fondarsi, senza porsi il problema, la loro importanza è nei risultati. La Grundnorm kelseniana funziona, questo conta.

Completo il tutto con due citazioni di Dostoevskij, rispettivamente dai Fratelli Karamazov e da Memorie del Sottosuolo per i due punti in questione:

"Il delitto non solo deve essere permesso, ma deve essere addirittura riconosciuto come la soluzione necessaria, e la più intelligente, per chiunque sia ateo"

"Ripeto, ripeto con più forza: tutti gli uomini immediati e d'azione sono attivi proprio perché ottusi e limitati. Come lo si può spiegare? Ecco come: per colpa della loro limitatezza scambiano le cause dirette e secondarie per cause prime, in tal modo si convincono più in fretta e facilmente degli altri di aver trovato un fondamento inconfutabile alla propria opera, e così si tranquillizzano; il che è essenziale. Perché per cominciare ad agire bisogna che si sia preventivamente del tutto tranquilli, e che non resti più alcun dubbio. Ma io, per esempio, come posso tranquillizzarmi? Dove sono per me le cause prime a cui appoggiarmi, dove le fondamenta? Dove andrò a prenderle? Mi esercito nella riflessione, e di conseguenza per me ogni causa prima se ne trascina dietro un'altra, ancora precedente, e così via all'infinito. Proprio questa è l'essenza di ogni coscienza e di ogni riflessione."

Edited by Sgubonius - 15/2/2010, 03:46
 
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The Shrike
view post Posted on 15/2/2010, 16:02




CITAZIONE
Però questo non fonda il Giusto evidentemente! Ed è "giusto" così.

Io non sono d'accordo, ma sono anti-Kelseniano. Ma la questione, magari, la sviluppiamo in diritto ;)

CITAZIONE
Però diciamo che tutto questo si allontana un po' (anche gli altri autori da te citati) dalla questione principale, cioè se è possibile un'etica totalmente atea

Ed invece no (almeno non nell'orizzonte della discussione teorico-giuridca che ho in mente). Abbiamo solo fatto delle parenti, a mio avviso, per analizzare la questione.
Abbiamo visto come un'etica/morale atea che voglia fondarsi deve "imporsi" ed auto-giustificarsi (il Kelsen mi serviva a questo). Se non con forza di un potere coercitivo che gli deriva da una bruta forza (o dal diritto) essa non si fonda (nei limiti ovviamente della visione di quest'ottica).

CITAZIONE
La Grundnorm kelseniana funziona, questo conta.

Esattamente! Dannazione, ti adoro Sgub, se non l'avessi scritto tu, l'avrei scritto io :P Ed ecco dove giunge, a mio parere la crisi attuale della scienza, del diritto, dell'economia. Non è una perdita di di diritto, scienza, economia, ma una vera e propria crisi di senso, corroborata da questo concetto della funzione...che è tecnocratico! Da tempo oramai sostengo un ritorno al capitalismo (meglio ancora al capitalismo etico di stampo randiano) contro questo degenerarsi del sistema in mera tecnocrazia, che nell'ambito di un sistema teoretico più ampio altro non è che l'esplicazione di quella parola (senza senso, of course) che è governace. Purtroppo siamo così intrisi dalla ricerca della funzionalità che abbiamo soppertito a tutto il resto, col risultato che, non riflettendo più sulle questioni importanti dell'etica, del diritto, dell'economia, anzi, li consideriamo come piani distanti!! Quando altro non sono che la rappresentazione di un corpo (insomma: così come un corpo possiede un livello fisico, emotivo, razionale, creativo, spirituale ecc) unico ed indivisibile.
La crisi di senso, sta portando il mondo ad affrontare le sfide date dal concepire il diritto, la società, l'economia ecc come rete (o reti) di informazione.
 
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Sgubonius
view post Posted on 16/2/2010, 01:37




Il "giusto" fra virgolette di fatto risulta identico al funzionante susseguente. Dato che il giusto in sé (secondo il grande domandare platonico) è abbastanza estraneo ad ogni possibile coglimento scientifico, diventa una questione pratica di stabilire un giusto e non porsi tante domande successive. Ma è chiaro che qui il giusto ha perso il suo "senso", è solo una funzione, dalla logica interna.

Ma c'è ancora qui, seppur sottostante, una logica che definirei "onto-teo-logica" (la parola è di Heidegger, che su questo tipo di analisi ci ha impiegato tutta la sua speculazione) che non solo suppone un dio, ma lo concepisce anche in termini di ente ideale. Non credo che esista un crisi della scienza o dell'economia, semmai esistono delle crisi che emergono da quanto la scienza ha programmaticamente lasciato fuori (un certo "esistenzialismo", i problemi etici, la religione). Non so se il corpo sia il modo giusto di concepire la cosa, bisogna sempre capire cosa intendiamo con queste parole, e ragionando qua di "massimi sistemi" le parole diventano molto pericolose.

Provo a tirare due somme. Esistono vari "modi" di pensare, cioè di valutare (nell'etimologia di mens c'è misurare, Nietzsche lo nota aggiungendo anche Mensch, uomo, al calderone). La scienza si è assestata, e con essa gran parte del modo di pensare della gente, su dei valori di "effettualità", di dominio tecnico dell'ente. Quando si impongono dei valori, automaticamente si struttura un'etica, e automaticamente si concepisce un "summus ens" (dio) come valore supremo e come obbiettivo. La scienza non è libera da questo (nell'altro topic è stato citato San Tommaso, ed è giustissimo infatti), e quando vuole dare precetti etici lo fa comunque sotto l'egida di un dio (spersonalizzato, aconfessionale, ma non reale ateismo) come quello della conoscenza, del progresso, della funzionalità. E' chiaro che tutto questo non può che fondarsi da sé, scrivendo le proprie tavole della legge e "dimenticando" l'origine dandola per rivelata o per legge di natura. E' solo che non si pensa più fino in fondo, ci si ferma, come dice Dostoevskij, ad un certo punto per poter cominciare ad agire.
La filosofia, nella sua inconcludenza, fonda invece la possibilità etica (non l'etica, ma la possibilità etica) andando a pensare quello che trascende ogni ente, e ogni concezione del dio come sommo ente, andando a cercare l'impossibile. Non è che si dia una soluzione semplice, tipo un ritorno ai bei vecchi tempi. La tecnica è una potenza e una condanna, croce e delizia. Rimando alla questione della scrittura in Derrida per tutto questo.

Ora si intersecano un mucchio di linee, non è semplice fare chiarezza. Ma è chiaro che il diritto così come è concepito non ha nulla a che fare con il pensare il giusto in sé, o la possibilità di giustizia, o la Diké di Anassimandro (una giustizia quindi oltre l'ente più giusto), o più in generale con una vera riflessione su Dio. Ci si limita ad "opinioni" (doxai) su dio e il mondo (esiste o no, è trino o no, la terra gira intorno al sole o viceversa). Non si esce dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli. E' da "fuori" che deve venire l'aiuto.
 
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EgoTrascendentale
view post Posted on 21/2/2010, 17:25




Metterei tra parentesi un pò tutte le tematiche che sono emerse. Ciò non perchè esse siano state pleonastiche ma perchè, il sottoscritto ricordando una parolina di 6 lettere (epoché) mira a descrivere il concetto di etica.
nelle discussioni è stato preso per ovviamente valido - sin dal suo titolo - il presupposto che l'etica debba essere "con dio".
e mi viene da chiedere: possiamo porre la domanda, al contrario? possiamo chiederci: etica/morale... "tea"?

L'idea stessa di etica (non importa distinguere qui l'etica dalla morale, come farebbe senza dubbi o hegel nella filosofia del diritto) rimanda, si può obiettare, ad altro, ad un fine oppure ad un criterio regolatore.
Qui si tratta allora di concepire lo statuto trascendentale di questo X a cui l'idea rimanda.
E' facile pensare che X sia il dio, il divino oppure al "mi piace e lo faccio" degli scettici, oppure al relativistico "così è giusto per me".
In realtà una fenomenologia dei comportamenti (evito l'insidiosa espressione "etica") deve poter descrivere il comportamento "secondo comportamento".
Se voglio mangiare uso coltello e forchetta è una descrizione che impianta l'azione al contesto.
Questa è strada battuta da Heidegger durante la composizione di Sein Und Zeit.
A noi interessa andare un tantino oltre:
A) NON mettere in luce l'agire in vista di un fine
B) NON l'agire nell'immediato e nel per lo più.
C) Ma l'azione teorica che comporta la scelta di un fine piuttosto che l'altro.
In questo modo, mi pare possibile dichiarare sin da subito, come il Dio sopraggiunga come giustificazione al gesto, come un rinforzo.
ma si badi, in questo ruolo giustificatore dovrebbe essere ancora discusso: infatti un dio di tal guisa meriterebbe le stesse critiche che Pascal mosse al dio di cartesio e che invito a prendere in visione.
del resto, lo riconosco, qualcuno potrebbe dirmi: ma ego tu così fai uscire dio dalla finestra e lo fai entrare dalla porta.
molto vero, però dal punto di vista della descrizione, il dio viene abbassato tra i criteri, come un criterio tra i criteri, spogliato quindi di ogni divinità.
tuttavia ciò lascia spazio ad un che di pre-divino che possiamo indicare come l'atto di libertà che Kierkegaard indicava come quello autentico di chi si converte, il momento dell'angoscia, in cui si sceglie l'etica piuttosto che l'estetica.
Quest'angoscia (lascio il termine anche se a me non piace), lo riconosco, indica bene la vertigine della libertà, ma occulta, a mio giudizio molto gravemente, l'aspetto positivo della libertà.
L'aspetto che forse Nietzsche chiamarebbe volontà di potenza.
Sicuramente è un momento "creativo" dell'etica.
Del resto la creazione ha luogo solo perchè presuppone libertà.
ma su questo preferisco tacere attualmente e aspettare di sviluppare bene questa cosa (faccio per inciso notare che da Leibniz ad hegel e husserl il principio come libertà è molto rimarcato e sentito. tuttavia però è una cosa che non ho mai afferrato completamente. e anche adesso, mi sfugge di mano).
 
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Sgubonius
view post Posted on 22/2/2010, 02:13




Non credo abbia molta importanza che Dio sia un concetto, uno spirito, o una persona. Dio è tale in quanto risponde a certe caratteristiche: principalmente una qualche trascendenza e una certa (iper)idealità. Non a caso il primo grande moralista e idealista, Platone, dice del Bene (Agathon) nella Eepubblica che è "epekeina tes ousias" (difficile da tradurre).

L'importante qui è capire quali sono le condizioni di possibilità dell'etica o morale, cioè dell'azione "giusta" (ed è infatti uno dei 2-3 grandi problemi platonici questo). Non si tratta tanto di fare un epoké (l'epoké ha già le caratteristiche di un diktat etico, prima ancora che gnoseologico, prevede che sia giusto far piazza pulita), piuttosto bisogna calarsi nella struttura etica, in tutta la sua complessità per orientarvisi.

La questione del "giusto" è infatti qualcosa più che una questione qualunque, si pensi ai primissimi pensatori dell'occidente: Anassimandro ("essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia"), Parmenide (il peri fuseos è un viaggio verso la dimora della dea Diké), Eraclito ("Occorre sapere che Pòlemos è in tutto e la giustizia è scontro e tutto accade secondo scontro e necessità"). E' proprio la giustizia la condizione di possibilità dell'etica, una necessità quindi prima della libertà che pure sembra la base dell'agire. Ma una pura libertà (il Don Giovanni in Kierkegaard, ma anche l'etica contrapposta alla morale in Hegel) non ha nessun rapporto con la giustizia come ideale trascendent(al)e.

Ecco il retroterra (e il proseguo) da cui Kant mutua l'intuizione che l'uso trascendente della ragion pura possa avere valore regolativo in ragion pratica, che una certa necessità, cioè un Dio che vede e provvede a distribuire a ciascuno il giusto (vedi ancora Anassimandro ed Eraclito), sia necessario per tenere insieme i cocci di una morale. Questo Dio (Diké) non è certo quello di Abramo e Isacco (anche se Kierkegaard forse avrebbe da ridire), ma ciò non toglie che non siamo nemmeno nell'ateismo. Non lo è nemmeno Nietzsche, che si riempe la bocca di questa parola (Gottlos) sapendo però che in qualcosa egli è ancora fedele (forse proprio nel "los", nel manque di Dio che rimanda a certi temi della teologia negativa).

Non c'è nessuno che anzi abbia capito che c'è un sì di fede prima di ogni etica come Nietzsche (rimando di sfuggita all'aforisma 344 della Gaia Scienza: "In che cosa siamo ancora devoti", oppure al 506 della Volontà di Potenza: "una specie di dire di sì è la prima attività intellettuale! All’inizio c’è un “tenere per vero”!"). E poi sulla sua scia il già citato Derrida.
Questo vale per il diritto, che trova la sua costituzione e ci si fonda, per la fenomenologia con la sua etica dell'epoké, per Nietzsche e la sua etica della potenza (con qualche raggiro che deriva dalla consapevolezza appena descritta e che porta ad una certa evoluzione, ciclica, del problema, dato che la potenza è già di per sé una valutazione pseudoetica).

Non so se è chiarissimo, non sono questioni proprio da telequiz per cui la complessità è d'obbligo.
 
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EgoTrascendentale
view post Posted on 22/2/2010, 13:04




CITAZIONE (Sgubonius @ 22/2/2010, 02:13)
Non credo abbia molta importanza che Dio sia un concetto, uno spirito, o una persona. Dio è tale in quanto risponde a certe caratteristiche: principalmente una qualche trascendenza e una certa (iper)idealità. Non a caso il primo grande moralista e idealista, Platone, dice del Bene (Agathon) nella Eepubblica che è "epekeina tes ousias" (difficile da tradurre).

non sono d'accordo.
proprio per le ragioni che tu mostri in questo stesso passaggio.
la trascendenza (il termine più pericoloso che usi) del dio è trascendenza indipendentemente da chi/cosa trascenda.
Può, è vero, mutare la modalità, i gradi ecc: ma l'idea, la sostanza (o se preferisci lasciamo quell'ousia che è difficile da tradurre) resta tale.
Idem per l'(iper)idealità.
L'operazione che ho cercato di compiere e di descrivere è una mera descrizione del criterio quando il criterio è dio.
Del resto, mi pare di notare, non hai risposta alla domanda - a mio avviso cruciale - che ho formulato nei termini che seguono (perdona l'autocitazione):
CITAZIONE
e mi viene da chiedere: possiamo porre la domanda, al contrario? possiamo chiederci: etica/morale... "tea"?

.

del resto se l'etica e la morale fossero davvero intimamente connesse a dio l'idea di una separazione di etica/morale da dio non sarebbe neppure pensabile.
Invece questa pensabilità è provata da queste stesse discussioni.
ma probabilmente si può obiettare: guarda ego che stiamo parlando di aria fritta...




CITAZIONE
L'importante qui è capire quali sono le condizioni di possibilità dell'etica o morale, cioè dell'azione "giusta" (ed è infatti uno dei 2-3 grandi problemi platonici questo). Non si tratta tanto di fare un epoké (l'epoké ha già le caratteristiche di un diktat etico, prima ancora che gnoseologico, prevede che sia giusto far piazza pulita), piuttosto bisogna calarsi nella struttura etica, in tutta la sua complessità per orientarvisi.

guarda che l'epochè husserliana non è "giusta" è semmai corretta. ma non mi posso impelagare sul criterio che permette di dire "l'epoché è corretta", perchè premetodica (è in pratica il più grosso limite di Husserl e qui già di problematiche ce ne stanno :D).

Il mio problema è proprio la condizione di possibilità dell'azione giusta.
L'azione è giusta in base ad un criterio. la scelta del criterio è qualcosa di assolutamente estraneo alla morale.
si fonda sul terreno teorico.
certo, possiamo avere delle differenze notevoli con altri settori (del resto i presupposti e gli strumenti teorici/metodici mutano a seconda che si faccia chimica o storia), tuttavia le differenze notevoli riguardano "la figura" del concetto.
Il concetto di fugura è uno dei più complessi (e forse meno noti) di Hegel.
Ma è importante, anche se non si può sviscerare il tema della figura, notare come pensare la morale in quanto azione "pura e semplice" o pensare la teoria della morale fa cambiare la figura del concetto ma non il concetto stesso.

CITAZIONE
La questione del "giusto" è infatti qualcosa più che una questione qualunque, si pensi ai primissimi pensatori dell'occidente: Anassimandro ("essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia"), Parmenide (il peri fuseos è un viaggio verso la dimora della dea Diké), Eraclito ("Occorre sapere che Pòlemos è in tutto e la giustizia è scontro e tutto accade secondo scontro e necessità"). E' proprio la giustizia la condizione di possibilità dell'etica, una necessità quindi prima della libertà che pure sembra la base dell'agire. Ma una pura libertà (il Don Giovanni in Kierkegaard, ma anche l'etica contrapposta alla morale in Hegel) non ha nessun rapporto con la giustizia come ideale trascendent(al)e.

rovescio l'argomento: poichè abbiamo la libertà possiamo fare del male o del bene: ciò ci permette il viaggio di Parmenide, l'avvertenza di Eraclito sulla Polemos.
Solo perchè si può fare indistintamente tanto il bene quanto il male, sopraggiunge l'idea (non uso il termine in senso platonico!) di darsi una calmata e di mettersi d'accordo a fare le leggi morali o razionali.
Qui il discorso di kant ci sta tutto: non abbiamo bisogno di sapere cos'è morale. ci interessa sapere il come, ovvero il "devi quindi puoi".
Il trascendentale giustizia è del resto un apriori materiale del diritto.
ma questo non significa affatto che non vi siano degli apriori sui quali si fonda la giustizia.
per dirla a chiare lettere: l'orizzonte della giustizia presuppone (poiché è incluso) l'orizzonte della libertà.


CITAZIONE
cco il retroterra (e il proseguo) da cui Kant mutua l'intuizione che l'uso trascendente della ragion pura possa avere valore regolativo in ragion pratica, che una certa necessità, cioè un Dio che vede e provvede a distribuire a ciascuno il giusto (vedi ancora Anassimandro ed Eraclito), sia necessario per tenere insieme i cocci di una morale. Questo Dio (Diké) non è certo quello di Abramo e Isacco (anche se Kierkegaard forse avrebbe da ridire), ma ciò non toglie che non siamo nemmeno nell'ateismo. Non lo è nemmeno Nietzsche, che si riempe la bocca di questa parola (Gottlos) sapendo però che in qualcosa egli è ancora fedele (forse proprio nel "los", nel manque di Dio che rimanda a certi temi della teologia negativa).

Ti dirò, a me proprio non convince quest'argomento. cioè, per me, hanno sbagliato tutti gli altri a pensare dio connesso alla morale.
Del resto noi siamo cristiani "per cultura".
i greci erano degli intellettualisti etici (sto banalizzando, voglio chiudere ma devo scappare al lavoro).
I cristiani hanno iniziato a pensare che il dio sia amore, mica pensiero che pensa se stessi.
forse destrutturando (o mettendo sotto epoché) questa abitudine mentale...
scopriremo un continente nuovo
 
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Sgubonius
view post Posted on 22/2/2010, 18:07




E' proprio quel velo sottile di ambiguità fra esatto e giusto che fa stare in piedi tutto il sistema di Husserl, e per questo ci faccio leva. L'idea che esista una teoresi separata e prioritaria rispetto all'etica (cioè sempre a qualche rimando ad altro) è già un mezzo sinonimo di fenomenologia, ed è proprio quanto critico.

Ma perché mai l'etica dovrebbe rimandare ad altro? Semplicemente perché non ci si può dare da sé le proprie norme etiche, saremmo in una incondizionatezza totale (libertà da Don Giovanni) in cui semplicemente non si darebbe etica né morale. Per questo arrivo a risponderti (era implicito prima): "Sì, una morale/etica è sempre e soltanto teistica (e tetica)". E' tetica quando pone la costituzione, è tetica quando impone l'immortalità dell'anima e la retribuzione, è tetica quando pone l'epochè come vera conoscenza (è noto che Nietzsche dice peste e corna dell'obbiettività, elogiando la prospettiva e il volontarismo, il gusto, tanto per fare un esempio di tetica opposta).
Perfino la libertà appartiene ad un certo teismo (senza arrivare a Schelling), se è anche una responsabilità e non solo un poter fare. E' la questione principale del nichilismo: non basta la libertà per fare dei valori regolativi. "Devi quindi puoi", non viceversa.

E' solo questo semplicissimo prerequisito che implica una trascendenza. La implica perfino nei 4 sistemi immanenti più celebri: Eraclito, Spinoza, Nietzsche, Deleuze. Però non vorrei entrare ora in queste problematiche specifiche. Trascendenza come hai detto indipendente da che cosa si trascenda, l'importante è che ci sia un esteriorità (siamo sempre allo stesso problema del "senso" dell'altro topic), un dualismo. E quando parlo di Dikè davvero non intendo una giustizia come quella del diritto penale, intendo quello che Heidegger chiama commessura dell'essere (Fug), il donare, il distribuire, il fuoco-logos eracliteo che destina il "giusto" a ciascuno, e destina quindi anche il libero arbitrio a chi di dovere (DEVI volere, quindi puoi scegliere ma sempre come se la scelta fosse un compito, da svolgere "bene").

Credo, per farla breve, che siamo assestati su due modi differenti di pensare dio e l'ateismo. Per me l'ateismo è semplicemente qualcosa di impensabile, o di pensabile per l'appunto solo negativamente, come la parola dimostra, e in ogni caso viene sempre confuso con l'aconfessionalità. Ed ecco perché è importante forse distinguere Dio da dio e la morale dall'etica. E' possibile un etica senza Dio, non una senza dio. L'etica viene "prima" di tutto quanto, è la struttura stessa del pensiero, inteso come valutare, e rimanda sempre ad una fede nel compito assegnato da una qualche Diké trascendente. Quando essa è (volontà di) potenza, non si fa che ri-immanentizzare circolarmente questa trascendenza, facendone una sorta di manque. Ma non si cambiano le carte in tavola, si comincia sempre con un sì, con un deus sive natura causa sui, con una "premetodica".
 
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32 replies since 12/2/2010, 10:23   939 views
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